In una calda notte dell’estate del 2007 scrivevo nel mio primo blog, utilizzato in maniera anonima per sfogarmi nei momenti di cortocircuito mentale, queste frasi, solo minimamente modificate in alcuni punti, ma assolutamente non nella sostanza.
Devo riconoscerlo… la notte, per il sottoscritto, ha sempre avuto un fascino particolare… anche se non si può assolutamente dire che l’abbia mai vissuta da protagonista… però ne ho vissute tante… sveglio, quando ero più giovane… adesso, alla mia veneranda età, devo stare attento a quello che faccio… se non dormo per una notte rimango rimbambito (più del solito) per oltre una settimana…
A parte questo, ho sempre usato la notte come se fosse il giorno, particolarmente quando si è trattato di studiare… o di lavorare… qualche volta anche per divertirmi, certo, ma… in percentuale, meno del 10%… sento la notte come un momento nel quale il silenzio, la tranquillità, il buio che, attraverso le finestre, inghiotte tutto, mi incoraggiano a dare il massimo, mettendomi, però, spesse volte di fronte a ciò che, di giorno soprattutto, tendo a fuggire… i miei pensieri… sia ben chiara una cosa… i miei pensieri, i miei casini, le mie preoccupazioni, per importanti che siano, per me, non saranno mai come quelle di chi lotta tutti i giorni per un tozzo di pane, o anche solo per veder sorgere un’altra volta il sole… lo so. Ne sono cosciente. Ma la mia testa, troppo spesso, non se ne ricorda… troppo spesso, vincola tutto ciò che faccio – e che sono – a violente elucubrazioni. Crude, sincere. A volte dolorose.
Sento di essere “sbagliato”, nel fare tutto ciò, ma non è nemmeno così facile gestire i mille filoni di pensiero che scaturiscono, spesso spontanei, dalla mia materia grigia (o chi ne fa le veci…).
La realtà è che, troppo spesso, come ho già scritto qualche sera fa, mi affido ad una parte irrazionale in grado di instillare mille dubbi, in grado di rinfrescare ricordi che erano sbiaditi e che, forse, sarebbe stato meglio scolorire del tutto…
La realtà è che, alla fine dei conti, tutti i voli della mia testa mi fanno crescere ogni giorno di un gradino. Non so se nella direzione del “bene” o del “male” (ed anche qui si potrebbe aprire un dibattito per cosa sia “bene” e per chi, e viceversa cosa sia “male” e per chi…), forse nemmeno voglio saperlo… nel corso degli anni ho acquistato una schiettezza che manda a farsi benedire la diplomazia che, in certe situazioni, dovrei tenere… nel corso degli anni ho rivisto tutti i miei errori, ripetendone anche, non pago, una buona parte… nel corso degli anni ho camminato al fianco di persone che, per tanti motivi, spesso mi hanno lasciato a camminare da solo (come scrissi in questa poesia del 2001)… nel corso degli anni mi sono accorto che, quando ho le spalle al muro, l’unico di cui posso fidarmi sono io… sempre che, per una elucubrazione notturna, non mi tradisca al punto da non sapere più uscirne… ho imparato ad essere schietto, con me stesso… il fatto è che non ho ancora ben capito quanti siano, qua dentro, a darmi consigli ed insegnamenti di vita… sono quello che ho saputo fare. Non me ne pento e non me ne pentirò mai. Nemmeno in una notte, come questa, che mi ha riportato ad interrogarmi su chi io sia e su cosa io voglia veramente dalla vita… perché fino ad oggi ho raggiunto, testardamente, tutti i traguardi che mi ero prefissato… quelli che non ho raggiunto, e questo è l’atroce dubbio, non li ho raggiunti forse perché non ho voluto farlo… e questi sono i miei fantasmi, i miei piccoli sassolini nelle scarpe che, ad uno ad uno, dovranno trovare la loro via d’uscita. Perché di strada, nonostante tutto, dovrò ancora farne tanta!
Ecco. A distanza di anni, non posso che confermare ogni singola parola, sebbene oggi non sia più solo la notte – che cerco di passare quanto più possibilmente dormendo – a suggerirmele. “sono quello che ho saputo fare” è, da quando ho preso coscienza di chi io realmente sia, la frase che mi ripeto più stesso, perché è l’unica verità che sono in grado di riconoscere a occhio nudo. Fatto cento il numero di decisioni che ho preso nella vita, novantacinque (e sono buono!) sono state sbagliate. Magari solo per il momento nel quale sono state prese. Magari solo per le persone che hanno coinvolto. Magari solo perché gli esiti nell’immediato e nel medio periodo sono stati, a essere generoso, disastrosi. Però… però sono state i mattoni con i quali ho costruito il mio essere, il mio pensiero, il mio modo di agire, la mia volontà di mettere al primo posto sempre qualcun altro rispetto a me stesso. Magari, molte volte, senza che nemmeno le dirette interessate o i diretti interessati se ne siano minimamente accorti. Ieri un caro amico mi ha dato un consiglio prezioso, anche se scomodo. Da amico vero.
“Vivi la TUA vita.”
Non so dargli torto. Davvero. E so perfettamente che agire per accontentare gli altri rende infelici. Lo so da tempo. È uno dei pensieri con i quali devo fare più spesso i conti da quando ho costruito i miei primi rapporti con “gli altri”. La discriminante, però, è il motivo per il quale si “agisce per accontentare gli altri”. Non l’ho mai fatto per timore di ciò che potessero pensare o dire di me. MAI. Se, fino all’adolescenza, la considerazione degli altri nei miei confronti costituiva, comunque, qualcosa di importante, da ormai trent’anni non mi curo più di cosa pensino gli altri di me. È un loro problema, non mio. E non lo dico perché io pensi di avere sempre ragione, ma perché non mi interessa vivere in funzione di ciò che pensino gli altri di me. No. Mi interessa vivere sapendo di aver dato tutto quello che potevo perché l’altra persona stesse bene. Sbagliando troppo spesso, purtroppo, le valutazioni sullo spessore dell’oggetto delle mie attenzioni.
Non posso farne una colpa all’altra o all’altro (o agli altri) di turno per errori di valutazione che sono solo miei, ovviamente, motivo per il quale ho la tendenza ad assumermi la responsabilità di quanto non funzioni o non abbia funzionato nei rapporti. E, di conseguenza, a farmi domande, a scaturire pensieri, a dichiarami fedele a me stesso. Il colmo? Non per egoismo…