Questo è il primo capitolo di un inedito che ho iniziato un paio d’anni fa, ma che ho abbandonato – spero solo momentaneamente – dopo una trentina di pagine. È una storia che si svolge nei primi anni Settanta, come sempre sul territorio della Provincia dove sono nato e, dopo una parentesi di qualche anno nel Nord del Piemonte, nella quale vivo ormai da più di quarant’anni. Le atmosfere sono quelle tipiche dei film italiani di quegli anni, anche se i personaggi, in realtà, potrebbero essere molto attuali anche oggi. Di certo, mi farebbe molto piacere se chi leggerà, lasci un commento sull’opportunità o meno che io continui questa storia.
L’alba di un nuovo giorno
Non gli sembrò vero: aprire una vecchia finestra in legno, coi vetri di carta velina tipici dell’edilizia dei primi del ‘900, e spalancare la persiana, con la sua verniciatura da rivedere, per godersi lo spettacolo di quell’alba.
Il sole, ancora nascosto, indirizzava i suoi raggi da dietro le colline di quella parte di Monferrato, tra Alessandria e Acqui Terme, dove s’era trasferito un po’ per forza di cose e molto per convinzione, realizzando giochi di luce e di colori che solo in un territorio da sempre votato alla coltivazione della vite e alla vinificazione potevano essere così incantevoli.
Respirò a pieni polmoni e mai aria gli era sembrata più pulita, frizzante e rigenerante. I rami del ciliegio in giardino si muovevano sinuosi, spinti dalla brezza mattutina, e il fruscio delle foglie era la giusta colonna sonora a quel quadretto bucolico.
Si sarebbe fermato ancora un po’ ad ammirare quella meraviglia, ma il lavoro lo chiamava a gran voce. In fondo, era lì anche, anzi, soprattutto, per quello. Indossò la giacca da camera e scese in cucina. Inserì due pezzi di legno, un po’ di segatura e due fogli di giornale nella stufa in ghisa. Con un fiammifero, di quelli lunghi, diede fuoco a questi ultimi, così che la fiamma accendesse via via i trucioli e attecchisse sulla corteccia secca dei ceppi. Riempì la caffettiera d’acqua e di polvere nera profumatissima e l’appoggiò sul piano. Meno di mezz’ora e avrebbe avuto il suo caffè, indispensabile per cominciare la giornata.
Si sedette sulla panca del suo Bechstein, arrivato direttamente dalla Germania dov’era andato a sceglierselo in fabbrica, che ormai lo accompagnava da più di due lustri in tutti i suoi spostamenti. Ne accarezzò con delicatezza la tastiera, la cassa e il coperchio. Era il suo compagno d’avventure. Il suo grande amore. Più di qualsiasi donna. Più di qualsiasi altra cosa.
Incrociò le dita delle mani e cominciò a muovere i palmi in direzioni opposte, così da eliminare definitivamente il lieve torpore che, sempre, queste mantenevano nell’immediatezza del risveglio. Poi, quasi in automatico, le buttò sulla tastiera, a formare con essa un tutt’uno che con nessun altro strumento, a suo avviso, si poteva realizzare.
Prima una scala ascendente. Poi una scala discendente. Un breve attimo di silenzio e, potente, l’attacco della “Cavalcata delle Valchirie”, il suo pezzo preferito, squarciò l’aria.
Suonare: l’antidoto a qualsiasi male. Fin da bambino. Fin da quando, cioè, la sua mente gli apriva baratri dai quali faticava a tornare. E la musica li chiudeva. Un suo – ulteriore – mondo, nel suo – travagliato – mondo. Un rifugio.
Picchiò sui tasti con un trasporto e una veemenza che erano di ottimo auspicio per l’arduo compito che doveva svolgere: non si era mai nemmeno immaginato come compositore di una colonna sonora per film ma, tant’è, era esattamente quel che era diventato.
Certo, se la sua carriera non avesse subito quel brutto arresto, mesi prima, non avrebbe mai accettato di abbassarsi a tale compromesso tra la nobiltà della sua arte e la necessità di mangiare tutti i giorni. Se ne sarebbe stato, come aveva fatto fino ad allora, a gironzolare per il mondo offrendo saggi del suo cristallino talento, della sua immensa classe. Purtroppo, però, la cazzata l’aveva fatta. E ne pagava le conseguenze.
Si alzò quando le narici percepirono il profumo di caffè appena salito che arrivava dalla stanza accanto. Ne bevve una tazza da caffelatte piena, senza zucchero, come sua abitudine, prima di decidersi a vestirsi e fare un salto in paese, per la spesa.
Dopo essersi preparato e prima di uscire, non poté fare a meno di fissare la prima pagina di quel copione che, di lì a poco, avrebbe dovuto conoscere come se fosse parte integrante della propria vita, così da abbinare a ogni singola scena la giusta carica musicale. “Dunkelheit”, “La tenebra”: un film italianissimo che, per fare nicchia e tendenza, rimandava ad atmosfere gotiche, buie e dure dell’Europa Centrale dei primi del ‘900, nella quale viveva e agiva Karl Denke, a suo tempo ribattezzato “il cannibale della Slesia”.
Sollevò la prima pagina, quella contenente il titolo, per soffermarsi sulle prime righe: “Slesia, 1909. Esterno. Buio. Pioggia battente. Una luce dapprima lontana si avvicina come potrebbe farlo negli occhi di una persona che si appropinqui a una vecchia porta di legno sovrastata da una lanterna contenente una grossa candela accesa. Rumore di nocchie sul legno. Cigolio della porta che si apre. Dalla penombra spunta il viso paffuto di un uomo sulla quarantina, con i baffi tipici di quel periodo. La scena passa sul lato della porta: si vede una ragazza giovane, bionda, ma con il viso sofferto di chi mendica, entrare in quella che sembra essere una locanda. Buio. Interno. Luce fioca di due candele in una cucina. Un tavolo in mezzo alla stanza. Al tavolo, accomodata su una vecchia sedia in legno con seduta in paglia, la ragazza di prima, davanti a un piatto fumante di minestra e a una pagnotta scura, di pane di segale. MUSICA AD ALTA TENSIONE. Dal buio, con un movimento rapido, una scure bipenne taglia di netto la testa della ragazza, con il moncone di collo che spruzza sangue dalle giugulari. Buio. Interno. MUSICA LENTA E GRAVE. Altra stanza, con solo un grande tavolo e un lavatoio. Il corpo della ragazza, spogliato dei vestiti, giace sul freddo legno. Mani esperte, con una mannaia, lo sezionano. Sul lavatoio, in bella evidenza, una decina di coltelli da macellaio e una grande pentola.”
Richiuse il copione, lasciandolo sul tavolo della cucina. Prima avesse provveduto alle due commissioni che doveva svolgere, prima si sarebbe dedicato alla composizione di quella MUSICA AD ALTA TENSIONE e dell’altra, MUSICA LENTA E GRAVE.
Mentre usciva, chiudendo con una sola mandata la porta d’ingresso della vecchia casa, ragionava su come si fosse ridotto a fare il jukebox per un produttore cinematografico.
Lui, Manfred Rossi – il cognome più diffuso in Italia associato a quel nome abbastanza singolare per un non-nobile gli sembrava da sempre una sorta di scherzo combinatogli dai suoi genitori –, il grande concertista, l’uomo che aveva collezionato il più alto numero di sold-out degli ultimi dieci anni in Europa e non solo, ridotto a musicare una storiella horror di serie zeta.
L’ultimo anno, trascorso nell’anonimato della clinica svizzera nella quale era stato rinchiuso dal suo manager, sembrava aver cancellato tutto quanto di buono le sue mani, affusolate e aggraziate, avevano costruito in precedenza. Già. Perché uno schizofrenico, nel dorato e maledetto mondo della musica concertistica, non era sicuramente il bene accetto, malgrado fosse non uno dei più grandi, ma il più grande pianista di quel genere.
Ammesso e non concesso che lo fosse davvero, schizofrenico e che quel problema non fosse nato da qualche tiro mancino del suo più agguerrito avversario, Rolando Baronetto.
Seguendo quei pensieri aveva già percorso qualche centinaio di metri sulla strada che portava al centro del paese, dove la panetteria e il negozio d’alimentari lo aspettavano. Incrociò un anziano contadino in sella alla sua bicicletta, vanga sulla spalla, che lo salutò con un ampio sorriso. Ricambiò con altrettanta solarità.
L’insegna un po’ scrostata dell’alimentari, “Da Luigina”, che era sopravvissuta a una guerra mondiale, lo fissava da sopra l’ingresso. La titolare aveva ancora lasciato la tenda estiva, quella a frange di plastica, attraverso la quale entrò. Si trovò davanti al banco frigo, un modello nuovo, decisamente in controtendenza rispetto al resto dell’arredamento, e attese il proprio turno, guardandosi intorno.
«Buon giorno, signore! Come posso esserle utile?»
La signora Luigina sapeva come trattare i clienti.
«Buon giorno a lei! Vorrei un etto di prosciutto cotto, un litro di latte e del formaggio.», rispose Manfred, con tono altrettanto caldo e squillante.
Posizionato il mezzo prosciutto sull’affettatrice, cominciò a girare la manovella. Sorridendo, si rivolse all’uomo: «Mi sembra un viso nuovo: è di passaggio?»
«No, mi sono trasferito qui ieri»
«Ottima scelta! Questo è un paese tranquillo, dove si vive bene! Arriva da lontano?»
«Negli ultimi anni ho vissuto in giro per il mondo, anche se formalmente abitavo a Roma.»
«Ma non ha accento di quelle parti!»
«No, infatti. Sono originario di questa zona.»
«Capisco. Guardi un po’: il prosciutto è un po’ di più. Che faccio? Lascio?»
«Sì, sì, lasci pure, grazie. Potrebbe suggerirmi un formaggio gustoso, ma non pesante da digerire?»
«Guardi, se le piace il formaggio con gusto robusto, ho una formaggetta di Roccaverano stagionata nel cavolo che è una meraviglia!»
«Sì, direi che può andare, grazie!»
«Per il latte ha il contenitore?»
«No, veramente pensavo che avesse quello confezionato.»
«Eh, no. Non lo tengo, perché non lo compra nessuno. Se vuole, posso procurarle io un contenitore per domani, così è a posto.»
«Sì, la ringrazio! Mi sembra una buona idea! Quanto le devo del prosciutto e del formaggio?»
«Seicentoventi lire.»
Pagò, salutò e uscì. Per quattro passi giusti, dato che l’ingresso della panetteria era a dieci metri da quello dell’alimentari. La ragazza dietro il bancone lo salutò con un sorriso: «Buon giorno!»
«Buon giorno a lei! Vorrei un chilo di pane morbido, per favore.»
«Preferisce panini o mezza micca?», domandò, l’ovale in bella evidenza grazie al “puciu” di capelli raccolti in alto sulla nuca, indicando dapprima rosette e paperine con la mano destra, poi una grossa pagnotta dorata con la sinistra.
«Va benissimo mezza micca, grazie! Volevo anche chiedere un’informazione di servizio, diciamo.»
«Chieda pure!»
«Dov’è che trovo un telefono pubblico?»
«Uno è al bar, un cento metri da qui, l’altro è in quell’angolo!», disse, sempre sorridendo e indicando un anfratto alla sua sinistra.
«Oh, perfetto! Grazie mille! Dove abito non ho il telefono e potrebbe tornarmi utile. Ah, che sbadato! Sono Manfred!», disse, porgendole la mano destra, a presentarsi.
«Lisa. In realtà, mi chiamo Annalisa, ma preferisco farmi chiamare così!»
«Molto piacere, Lisa! Allora, quando dovrò telefonare, verrò qui da voi! Quanto le devo per il pane?»
«Duecentocinquanta lire!»
Pagò con una banconota da cinquecento lire, con il profilo di Aretusa ben in mostra, cercando con lo sguardo, un paio di volte, gli occhi, verdissimi, della ragazza impegnata a recuperare il resto dalla cassa.
«Allora, buona giornata e presto!», disse lei.
«A presto!», rispose Manfred, varcando la soglia per uscire.
Si riparò gli occhi facendosi ombra con la mano destra e prese la strada per rientrare a casa. Percorso un centinaio di metri, vide alla sua destra un vialetto alberato al termine del quale si poteva notare, inconfondibile, la struttura del cimitero.
Senza una motivazione precisa, deviò il suo percorso e, in meno di un minuto, si ritrovò davanti al grande cancello, aperto, che introduceva al piccolo camposanto, decisamente ben curato. Uno stretto sentiero lo percorreva centralmente, ricoperto di ghiaia bianca, fine e sottile, che lo rendeva molto simile alla navata di una chiesa in marmo di Carrara. A metà circa del sentiero, se ne diramavano altri due, uno verso destra e uno verso sinistra.
Percorse in silenzio parte del primo, avvicinandosi lentamente a una cappella che, da lontano, gli era sembrata intitolata a una famiglia con il suo cognome. E così, in effetti, era. Sbirciò dal cancelletto, rigorosamente chiuso a chiave, all’interno, percorrendo lentamente, con gli occhi, le varie lapidi presenti. Fino a che si sentì gelare il sangue nelle vene.
Strabuzzò gli occhi, se li stropicciò e guardò nuovamente. No. Non si era sbagliato: “Manfred Rossi – Nato nel 1931 – Morto nel 1973”.
«Cazzo!», pensò tra sé e sé, «Questo sono io!»
Indietreggiò per pochi passi, poi prese a camminare molto velocemente verso l’uscita. Alcune gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Il viso, fino a pochi istanti prima rilassato e sereno, una maschera. Non poteva essere altrimenti: quella era la sua tomba. Dove mai poteva esistere un altro Manfred Rossi? E nato nel millenovecentotrentuno, come lui? E come mai non c’era la foto, su quella lapide, mentre su tutte le altre c’era? Si diresse verso casa frastornato da quelle domande, aprì il portoncino, se lo richiuse alle spalle con tripla mandata, per dirigersi velocemente nel bagno. A sciacquarsi la faccia. Si asciugò e cominciò a fissare la sua immagine nello specchio. Vide il susseguirsi delle stagioni e degli anni stamparsi indelebilmente sulla sua pelle, i capelli diradarsi e imbiancarsi, il viso, già magro di suo, incavarsi ancora di più. Non seppe trattenere un urlo, più di rabbia che di paura, levato al cielo chiudendo gli occhi e lasciandosi cadere sulle ginocchia, per poi appoggiare la schiena e la testa a terra, le mani sul viso e un senso d’ansia incredibile.
Il respiro, affannoso e aritmico, si fece più profondo e ritmato. La morsa nella quale il viso era tenuto dalle mani si allentò a poco a poco. La contrazione muscolare generale nella quale si trovava il suo corpo si scaricò lentamente. Si addormentò.
© Roberto Grenna – Riproduzione vietata
La lettura mi ha trasportata in un’atmosfera di un tempo lontano ma che ancora ci appartiene, quindi è lui il morto????