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Questo è il primo capitolo di un altro inedito che ho iniziato tempo fa, accantonandolo dopo un paio di capitoli. È una storia ambientata ai giorni nostri, come sempre in queste zone, ma che affonda le sue radici in epoche lontane – addirittura al tempo degli Assiri. Il protagonista è un anonimo professore universitario di Storia, ancora lacerato da una perdita alla quale non ha mai saputo dare un senso, che riuscirà a mettere a rischio la propria vita e non solo, nel tentativo di dare forma e sostanza a un’antica credenza. Anche in questo caso, gradirei molto qualche commento in merito all’opportunità di proseguire con la storia.

Una collezione particolare

Il calice era lì, sul tavolo in cristallo del salone, proprio davanti a lui.

Gli occhi – quasi sgranati, increduli – lo fissavano con bramosia. Sembrava, in alcuni momenti, che anche i teschi intagliati nell’osso della coppa lo fissassero, con quelle orbite più scure e quell’espressione quasi maligna.

Due, cinque, dieci. Più di venti crani umani, in rilievo, perfettamente intagliati, ciascuno con una diversa espressione e una diversa inclinazione rispetto al bordo. A intervallarli – non sempre, ma spesso – epifisi di differenti dimensioni.

Lo sguardo, poi, seguì la linea dello stelo: sette vertebre, anche queste di sembianze umane, di grandezza calante fino al piede, rotondo, anch’esso finemente intagliato, dal quale scaturivano teschi più piccoli, più in rilievo rispetto a quelli presenti sulla coppa, ricchissimi anch’essi di dettagli.

Al tatto, pur con tutte le figure che lo caratterizzavano, era liscio, lasciando intuire la porosità propria del materiale con il quale era stato realizzato, secoli prima. Scorrendo con le dita l’interno della coppa, si percepiva come l’osso fosse stato impermeabilizzato con una sorta di resina, che ricopriva anche due dita del bordo esterno, così che non si rovinasse quando fosse stato riempito di liquido.

E poi, l’odore. Profumava di morte. Quell’effluvio s’era espanso per tutta la stanza all’apertura della scatola che il corriere aveva consegnato ed era stato il primo segnale che il pezzo fosse, effettivamente, ciò che lui sperava: uno dei sette calici ottenuti dalle ossa lunghe e deformate dei morti della pandemia di peste nera che colpì Europa, Asia e Vicino Oriente tra il 1347 e il 1352.

Appoggiò quello che per lui era più del Sacro Graal nuovamente sul tavolo di cristallo, da cui prese il cellulare. Cercò in rubrica “Cagliostro”, poi avviò la chiamata.

«Sai che non mi devi chiamare a questo numero!», disse una voce molto dura, dall’altra parte.

«Lo so, ma non ho saputo attendere: è arrivato!»

Seguì un lungo momento di silenzio. Poi, dall’altro capo riprese la comunicazione: «Molto bene. Ci vediamo stasera al solito posto. Portalo con te.»

Appoggiato che ebbe il cellulare sul divano, riprese a manipolare quel macabro, ma affascinante, oggetto, alzandosi lentamente e dirigendosi verso l’antico secretaire che conteneva, al sicuro da sguardi indiscreti e mani inadatte, i frutti delle sue ricerche, ormai più che ventennali. Accostò il calice a uno dei cassetti, estrasse dalla camicia la catenina che inanellava a mo’ di ciondoli le chiavi dei vari scomparti, scelse quella corretta e lo aprì, ponendovi con la delicatezza propria della puerpera con il neonato quanto teneva tra le dita tremanti.

Con l’attenzione con la quale l’aveva aperto, richiuse il cassetto, per poi riporre nuovamente la chiave insieme alle altre, proprio mentre il campanello annunciava la solita visita delle tre del pomeriggio.

Uscì dal salone, imboccando il corridoio verso la porta d’ingresso: «Arrivo!»

Aprì.

«Ciao, zio! Come stai?»

«Vieni, vieni! Stavo leggendo un po’.», disse, facendo accomodare Lara.

«Oggi devo vedermi con delle amiche per parlare di lavoro, ma al nostro caffè non rinuncio!», disse lei, sorridendo e mostrando quelle fossette agli angoli delle labbra che avevano il potere di evocare in lui i ricordi d’infanzia, quando a sorridere così era sua sorella, Ludovica.

«Accomodati di là, che metto sul fuoco la caffettiera.»

La giovane si diresse con passo sicuro e veloce nella stanza nella quale, fino a pochi istanti prima, suo zio aveva contemplato il suo nuovo acquisto, rimanendo in piedi, rapita, davanti all’enorme scaffale libreria che occupava una intera parete di quella grande sala. Il padrone di casa non impiegò più di un minuto a raggiungerla.

«Allora, cosa mi racconti?», disse, mentre varcava la soglia.

«Niente di nuovo, a parte questo incontro pomeridiano con Anna e Sabrina, le mie due compagne d’università. Stiamo ragionando sulla possibilità di mettere in piedi uno studio tutto nostro. L’idea è venuta ad Anna e oggi pomeriggio cominceremo a parlarne per capire se si possa davvero pensare di impelagarci in una cosa del genere.»

«E tuo papà? Cosa ne dice?», domandò, mentre prendevano posto sul divano.

«Non gli ho ancora detto niente. Lo metterò al corrente se e quando avremo le idee un po’ più chiare. Sai che lui è una persona molto apprensiva e non ho nessuna intenzione di metterlo in stato di agitazione per qualcosa che è solo allo stato embrionale.»

«Sì, mi sembra giusto. Romano comincerebbe ad arrovellarsi su tutte le possibili complicazioni e non ti lascerebbe più vivere. E dire che, una volta, non era così!»

«Eh, zio, lo so! Ma da quando mamma è mancata, lo sai, lui si è quasi trasformato. Non che abbia paura della propria ombra, ma quasi!»

Seguì un momento di silenzio. Quel “da quando mamma è mancata” aveva avuto il potere di rievocare, nella testa di Tiberio, ricordi ancora troppo freschi per lasciarlo indifferente.

Fu Lara a riprendere la conversazione: «E tu? Cosa mi racconti? Hai avuto novità per quell’ultimo articolo?»

L’uomo parve svegliarsi da una sorta di breve torpore e i suoi occhi, dapprima fissi nel vuoto, si concentrarono sull’ovale di quella sua unica nipote, che lui amava come se fosse figlia sua: «Non ancora. La review dovrebbe arrivare entro la fine del mese, ma ho saputo che sono arrivati molti più paper di quanti gli organizzatori si aspettassero e ora sono in difficoltà a rispettare i tempi. Comunque sia, io non ho fretta. Sto già lavorando agli altri due che devo presentare il mese prossimo e non mi preoccupo più di tanto. E domani mattina ho esami, quindi avrò occasione per non pensare alla sorte di un lavoro che mi è costato due anni di ricerche.», disse sorridendo.

«Vorrei avere la tua serenità e saggezza, zio. Pensa che, per questa cosa dello studio privato, quasi non ho dormito, stanotte!»

«Vedrai che, a mano a mano che farai esperienza, riuscirai a farti scivolare addosso le tensioni e ad accettare gli eventi per come ti arriveranno nella vita! Vado a vedere se il caffè è pronto!», disse, alzandosi.

«Ti accompagno. Lo prendiamo di là!»

Si diressero in cucina, dalla quale provenivano un intenso profumo e un borbottio inconfondibile.

Lara dispose le tazzine sul tavolo, mentre Tiberio spense il fuoco sotto la caffettiera e, col cucchiaino, ne rimescolò il contenuto, per poi riempire le due tazze.

«Amaro, come sempre?», domandò alla nipote.

«Sì, sì!», rispose lei, «Lo sai che sono in perenne lotta con la bilancia!»

«Come se ne avessi bisogno!»

Sorrisero, insieme, scambiandosi uno sguardo complice.

Consumarono il caffè con la giusta tranquillità, rimanendo in silenzio.

«Adesso scusami, ma devo proprio scappare! Hai detto che domani hai esami: allora non passo?»

«In realtà, spero di concludere tutto in mattinata. Se sei da queste parti, tu prova a salire. Al massimo, ci sentiamo poi in serata.»

«D’accordo!», esclamò la ragazza, accostando le labbra alla guancia di quell’uomo per il quale, fin da piccola, nutriva un amore viscerale.

«A domani!», disse a voce alta, mentre si tirava la porta dietro le spalle.

Lara. La copia sputata di Ludovica, la sua sorellina. Gemelli diversi, per lui era sempre stata “la sorella più piccola”, da difendere e da proteggere da tutto il brutto che le potesse accadere. Ma non era riuscito a difenderla da quel bastardo male, nonostante le avesse donato il proprio midollo osseo. Non era riuscito a salvarla. E, da allora, il rapporto con sua nipote era diventato ancora più forte, più esclusivo. Senza contare che aveva dovuto supportare anche Romano, suo cognato, che ancora non si era ripreso da quella perdita – e sì che si era sempre dimostrato uomo forte e risoluto.

Cinque anni, tre mesi e venti giorni. Il tempo stava passando proprio velocemente. Il giorno del funerale, mentre trasportava sulla spalla il feretro della sorella, qualcosa in lui era scattato. Una scintilla o una bomba, a seconda dei punti di vista. Per lui, docente universitario di storia antica e amante di tutto ciò che è mistero, quell’evento segnò il punto di non ritorno.

Tornò al suo secretaire, per aprire uno scomparto segreto, praticamente invisibile se non conosciuto. Ne estrasse il pezzo più pregiato della sua collezione: una tavoletta d’argilla, colma di caratteri cuneiformi, proveniente dalla Biblioteca di Assurbanipal.

Aveva rischiato la vita, in quel viaggio in Medio Oriente che gli aveva consentito di impossessarsene, ma ne era valsa la pena: l’unica tavola a corredo dell’Epopea di Gilgameš – e non facente parte dell’Epopea stessa, quindi mai inventariata – che racconta nel dettaglio come la dea Ištar, rifiutata dal protagonista della storia, minacci di aprire con un antico rituale i cancelli degli Inferi.

La sua opera di traduzione non era ancora completa, ma il solo fatto di poterla stringere tra le mani lo rendeva felice come un bambino il giorno di Natale.

La appoggiò sul tavolo, passandovi sopra i polpastrelli della mano destra, quasi a volerla leggere come un cieco fa con il braille. Non poteva – ma, in fondo, nemmeno voleva – chiedere aiuto a nessuno: ufficialmente, quella tavola non esisteva e qualunque assirologo avesse consultato, avrebbe potuto fare di tutto per impossessarsene. Certo, studiare il cuneiforme non era stato affatto semplice, ma si era fatto dare una mano, in maniera indiretta, da un paio di suoi tesisti.

L’adorazione – perché di questo si trattava – durò una decina di minuti, dopo di che il buio vano del secretaire ebbe nuovamente in custodia quel tesoro.

I pezzi del puzzle si stavano piano piano radunando, anche se ci sarebbe stato ancora molto da lavorare: i calici, innanzi tutto. Ma poi, le pagine mancanti del manuale di Edilberto, sulla sorte delle quali non aveva notizie.

La sua collezione. Il suo piano. La sua ferrea volontà di raggiungere quell’obiettivo che si era dato cinque anni, tre mesi e venti giorni prima.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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