Spesso mi sento domandare: «Ma dove lo trovi il tempo per scrivere, con tutte le cose cui devi far fronte?»
Domanda interessante e non banale, alla quale spesso rispondo – io, invece, in maniera terribilmente banale – «Rubando ore al sonno o ad altre attività che mi piacerebbe svolgere.», ben consapevole di come stia mentendo spudoratamente. Già. Perché non sono io che trovo il tempo di scrivere: è lui che trova me. È un qualcosa che monta da dentro – e non chiedetemi se dalla testa, dal cuore, dallo stomaco o da chissà quale altro organo (spero, comunque, non al di sotto dell’ombelico!) – e che richiede, prepotentemente, la mia attenzione. Anche soltanto per un appunto preso su un foglio di carta da formaggio, per una frase scritta su un file che ormai avrà raggiunto il GigaByte di dimensione, per una sequenza di parole che – mi auguro – quando avrò più tempo (rieccolo!) sapranno instradarmi nella stesura di chissà quale nuovo scritto. Non è che mi metta lì, un giorno, e dica: «Oggi scrivo una poesia!». Soprattutto per queste ultime (o, meglio, per quelle cose che io spaccio per tali) serve la forma mentis corretta. Serve profondità. Serve sentimento. Una poesia non è il banale racconto di una storia. È, a mio modo di vedere, una vera e propria opera d’arte. Ne sono convinto da quando ho cominciato a comprendere l’esistenza di diversi generi, di diversi stili, dei diversi modi nei quali ciascun autore fa uscire un pezzo di sé. Credo che il mio rapporto con la scrittura sia nato proprio per questo: far uscire qualcosa di me che, altrimenti, fermenterebbe e, alla lunga, potrebbe anche farmi male. O far sì che io ne faccia – badate bene, non per violenza o mancato rispetto delle persone – agli altri che mi circondano. Non sono uno scrittore o un poeta e mai ho voluto intendermi come tale. Sono uno scribacchino, uno che prova a fissare su carta quel “tempo di scrivere” che arriva quando meno te l’aspetti, ma che pretende attenzione proprio come un figlio, come un bambino che non vede intorno altri se non se stesso. E io cerco, semplicemente, di assecondarlo. Di farlo coincidere con un momento di mia disponibilità. Di renderlo terapeutico nei momenti nei quali le storture della vita – e spero che nessuno si offenda se mi permetto di dire che qualche stortura c’è anche nella mia – rischiano di trascinare in abissi dai quali difficilmente si esce meno che impazziti.
Oggi, nonostante un mal di testa importante e i bambini che, giustamente, reclamano le mie attenzioni, quel “tempo di scrivere” mi ha portato a porre la parola “fine” a un romanzo nato da sensazioni cresciute in ambito lavorativo, cresciute in una storia non scontata dove i ruoli dei protagonisti, a un certo punto, non sono più così chiari e che oggi, tra le immancabili lacrime che scendono – liberatorie come al termine di un parto – ha visto il proprio completamento.
Pronto, ovviamente, ad altre sfide.
Scrivere è un atto di grande coraggio, è un modo di volersi bene perché ci si lava l anima. Spesso non lo si fa nemmeno per essere capiti…….