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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

Le avevo promesso che non avrei rivelato a nessuno dove eravamo andati e non mi sarei certo tradito, nemmeno con mia madre, nemmeno se avesse significato una punizione peggiore. Non so quale forza soprannaturale intervenne, ma il giorno dopo, nonostante mi fosse stato proibito di uscire, ebbi una libera uscita di più di due ore. Non sgarrai neppure di un secondo. Ci tenevo troppo a poter tornare ogni giorno in quello che di lì a poco avrei chiamato il “nostro posto” e avrei fatto di tutto per evitare punizioni. Avevo solo sette anni, ma i miei conti sapevo farli già allora. Il mese di agosto passò in un baleno, fatta eccezione per un giorno nel quale un temporale la fece da padrone. Ce ne stavamo lì, vicino al tavolo della cucina di casa mia, cercando di finire i compiti delle vacanze. Le gocce di pioggia battevano contro i vetri. La mia mente volava alla nicchia tra gli alberi, al sole che penetrava tra le fronde, ferendo ora il mio, ora il suo viso.

«Ehi! Sveglia!»

La sua voce mi riportava alla realtà, una realtà nella quale la pioggia si trasformava in grandine e nella quale mia madre cominciava a correre fuori, sul balcone, nel tentativo di salvare i suoi vasi.

«Accidenti! La grandine mi ha rovinato tutte le petunie!»

Era rientrata completamente fradicia, con i capelli bagnati che le coprivano il viso. Abbassò le tapparelle per evitare che grandinasse contro i vetri.

«State qui buoni, mentre io mi vado a cambiare. Ecco! Ci mancava solo più che andasse via la luce! Chissà dove ho messo le candele?»

Mentre lei cercava nei cassetti della credenza, sentii che una mano stava prendendo la mia.

«Ho paura del buio!», mi sussurrò in un orecchio, ridacchiando. Sorrisi. Mi sembrava impossibile che Elena potesse avere paura di qualcosa.

«Eccole! Adesso ve ne accendo una!»

La mano che mi aveva cercato si ritrasse velocemente. Mia madre si cambiò i vestiti in un attimo, così come poco durò il black-out. Il fiume non era davanti a noi, ma il nostro piccolo mondo riusciva a vivere lo stesso. Spesso mi capita di ripensare a quanto possa essere esclusivo il rapporto tra due persone, tra due bambini particolarmente. Loro, proprio loro, sanno trovare le cose più belle, le cose che si rimpiangeranno per tutta la vita. A volte si capisce troppo tardi che la spontaneità deve esistere in ogni rapporto. A volte ci si nasconde dietro corazze che il tempo sa solo rendere più dure, più difficili da penetrare. Solo la mente riesce ad andare oltre, capace com’è di vivere in maniera ugualmente semplice il passato come il futuro. Un settembre tiepido occupa la mia testa. Di primo pomeriggio in bicicletta, come al solito, le cassette della frutta, vuote, legate dietro con uno spago. Ne avevamo già portate più di venti ed era giunto il momento di cominciare il nostro lavoro. Arrivammo alla nicchia a piedi e buttammo le cassette insieme alle altre.

«Adesso ci servono dei pali. Se vieni ad aiutarmi tra cinque minuti possiamo cominciare!»

Ci muovemmo verso la parte del boschetto più intricata, quella nella quale andavamo malvolentieri. Un po’ di fortuna ci venne incontro. Trovammo subito due pali della lunghezza giusta. Un terzo, poco più avanti, era troppo lungo.

«Tu mettiti sopra coi piedi e io provo a romperlo!»

Elena si mise dove le avevo detto. Nonostante il legno bagnato non opponesse molta resistenza, riuscii ugualmente a ritrovarmi col sedere per terra. Una sonora risata coprì il mio «Accidenti!»

«La corteccia è scivolosa! Stai attento!»

«Grazie! Potevi dirmelo anche prima!»

«Sì, così mi perdevo la scena!»

Era passato più di un anno da quando eravamo arrivati insieme in quel posto, ma mai, fino ad allora, ci era venuto in mente di costruirci una capanna.

«Ridi, ridi: con te me la vedrò dopo!»

«Sì! Sai che paura!»

Dopo il piccolo inconveniente, ebbi la meglio sul mio antagonista e lo ridussi alla misura voluta. Tirai fuori il coltellino che mio zio mi aveva portato dalla montagna e mi misi ad incidere l’estremo di uno dei pali.

«Cerca di fargli una punta bella lunga, così si pianta meglio. Io, intanto, vado a prendere lo spago. L’ho lasciato infilato sul manubrio della bicicletta.»

Si allontanò di corsa, evitando con un salto un tronco rovesciato. Seguii la sua corsa fino a quando non la vidi più, nascosta da un grosso albero. Con la mio lama cercavo di ottenere il meglio. Avevo letto su un libro regalatomi dai miei nonni, che il coltello si doveva usare in un certo modo, in maniera tale da evitare di ferirsi. Tentavo di seguire il “consiglio”, ma un attimo di distrazione mi costò un taglio alla base del mignolo. Gridai con quanto fiato avevo nei polmoni e subito Elena arrivò di corsa.

«Cosa è successo? Perché stai piangendo?»

Era la prima volta che mi facevo vedere piangere da lei. La vergogna, in quel momento, riusciva a superare anche il dolore.

«Aspetta un momento! Ho un fazzolettino.»

Spiegò il fazzoletto bianco che aveva in tasca e lo ripiegò lungo la diagonale. Mi prese la mano e mi portò vicino all’acqua.

«Metti la mano nell’acqua, così la puliamo dal sangue.»

Appena la tirai fuori, mi ci sistemò subito sopra la ‘fasciatura’ e la legò stretta, con una forza che non pensavo avesse.

«Ma così ti sporco tutto il fazzoletto!»

«Non ti preoccupare. L’importante è che smetta di sanguinare!»

Mi strizzò l’occhio e ci sedemmo vicini. Decidemmo di riprendere a lavorare in cooperativa: lei avrebbe tenuto il palo e io avrei continuato a fare la punta, cercando di prestare un po’ più di attenzione a quello che facevo. Ci impiegammo una ventina di minuti. Infilato il coltello nel morbido terreno, ci mettemmo insieme a piantare il palo. Avevamo già disegnato un rettangolo sulla sabbia e ci posizionammo su uno dei quattro angoli. Lo piantammo con forza e cominciammo a ruotarlo per farlo penetrare meglio. La mano sinistra mi faceva male, ma non volevo essere da meno rispetto a lei. Le nostre fatiche furono premiate: le prime fondamenta della nostra abitazione erano ben fisse e non davano segni di cedimento.

«Che ne dici di andare a fare merenda? Ricordati che dobbiamo ancora fare i compiti. E poi, per oggi abbiamo già combinato abbastanza danni!»

«Sei proprio simpatica!»

Ci avviammo lentamente, dopo aver recuperato il coltellino e aver nascosto lo spago sotto una delle cassette. Le biciclette erano rovesciate sul ciglio della strada. Le tirammo su e ci avviammo verso casa.

«Vieni da me, a fare merenda?»

«Va bene! Passiamo un attimo da casa mia a prendere i quaderni e a mettere un cerotto su questo taglio. Guarda qui, tra sangue e terra, come è ridotto il tuo fazzoletto!»

«Puoi anche tenerlo. Mia madre non si accorgerà mai che l’ho perso.»

Lo sfilai dalla mano e lo misi in tasca prima di entrare in casa. Mia madre non fece troppo caso alla mia fugace apparizione e non si accorse nemmeno del fatto che mi ero disinfettato il taglio, impegnata com’era a stirare i panni.

«Io vado a fare merenda da lei. Mi dai i quaderni, così poi facciamo i compiti insieme?»

Appoggiò il ferro sull’asse e si mise a cercare il quaderno di italiano e quello di matematica nella mia cartella.

«Cerca di non tornare a casa troppo tardi, perché forse papà arriva prima e andiamo a cena dalla nonna.»

«Va bene, mamma. Non ti preoccupare.»

Prima di uscire andai un attimo in camera mia. In un cassetto avevo tutte le mie cose più preziose, quelle che le persone più care mi avevano regalato. Solo io potevo mettere le mani tra quelle cose e da quel pomeriggio ci sarebbe stato un ricordo in più. Uscimmo da casa di corsa. In pochi minuti ci trovammo intorno ad un tavolo, cercando di risolvere una decina di moltiplicazioni piuttosto ostiche. Impiegammo due ore a terminare i compiti e io arrivai a casa giusto in tempo per non essere sgridato.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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