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Ricordo ancora il giorno nel quale, novello Saulo sulla via di Damasco, fui accecato da quello che sarebbe diventato il mio più grande amore sportivo: 5 maggio 1985. Chiaramente, una domenica. Già… quel “5 maggio” tanto caro a tifosi di una squadra in particolare, per me ha il significato di un battesimo – laicissimo, per carità – verso una fede che non prevede conversione perché, come dico sempre, di una persona che cambia squadra si deve diffidare, senza “se”  senza “ma”.

Avevo già messo piede, ben più piccino, al glorioso “Ottolenghi” di Acqui Terme – città che mi diede i natali – e seguivo il calcio con attenzione, anche grazie alle mitiche raccolte di figurine della Panini, oltre che all’altrettanto mitico “90° minuto”, che tutte le domeniche intorno alle sei del pomeriggio mi consentiva di ammirare le gesta dei calciatori di serie A e B. Ma non era quello il mio mondo. No. Ho cominciato a capirlo quel 5 maggio 1985: non una partita qualunque. Alessandria-Prato è stata, molte volte, decisiva per promozioni o mantenimento della categoria. Insomma, non sarà “LA” partita, ma scatena comunque fantasie sportivo-erotiche-masochistiche.

Ho ben scolpiti nella memoria due episodi, di quel match contro l’allora prima della classe. Quarantunesimo del primo tempo: calcio di rigore per noi. Sotto la Sud, al tentativo di trasformazione, un mito per noi tifosi Grigi: Ciccio Marescalco. Eppeccato… alto! Si rifarà nel secondo tempo, con una gran girata di sinistro sul secondo palo per la rete che spianerà la strada al largo successo (3 a 0). Il secondo episodio, sportivamente deprecabile, a quattro o cinque minuti dalla fine, quando il portiere ospite, tal Vettore, dopo aver battibeccato più volte coi tifosi della Nord, rivolgeva alla curva un gestaccio che costava a lui l’espulsione e alla sua squadra la chiusura della partita in otto (!!!) uomini. Al termine, l’apoteosi per una vittoria che riaccendeva sogni di promozione che si sarebbero spenti, in una calda giornata di giugno, a Modena, proprio contro la stessa squadra schiaffeggiata e umiliata al “Moccagatta”. Una rivincita – un 3 a 2 molto combattuto – che fa ancora male.

E niente. Da allora, da quel 5 maggio 1985, in un crescendo di consapevolezza e di sentimento, il calcio alberga in un solo posto: il “Mocca”. Anche dopo il restauro. Anche dopo le riforme. Anche dopo il fallimento. Tante piccole gioie, troppe grandi delusioni, come in ogni storia d’amore che si rispetti. Tanti giocatori che hanno onorato questa maglia dal colore unico al mondo e che ancora oggi se la sentono cucita addosso. Qualcuno che, purtroppo, non ha capito l’amore della gente per questa squadra e la voglia dei tifosi di vedere gente che “suda e sputa sangue”. Perché gli applausi, qui, non si prendono se si vince, ma se si è dato tutto quanto si aveva in corpo. Perché l’Alessandria è l’Alessandria. E po’ pü.

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