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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

«Sai, stavo pensando che da settembre dovremo lavorare sodo! L’esame di quinta non è uno scherzo!»
Non raccolsi subito.
«Ehi! Ma che fai, dormi?»
«No, no, dicevi?»
«Stavo dicendo che finite le vacanze dovremo impegnarci subito perché a giugno avremo l’esame!»
Un grande ostacolo per due bambini di dieci anni. Guardai il fiume.
«Se non dovessi passarlo penso proprio che mi butterei nel fiume!»
Uno schiaffo mi fece bruciare la guancia sinistra.
«Non dirlo nemmeno per scherzo!»
Si era fatta seria, quasi triste. Mi accorsi di avere detto qualcosa di brutto, qualcosa di cui dovermi vergognare. Vidi i suoi occhi farsi lucidi, mi alzai di scatto.
«Non fare così, ti prego! Ho sbagliato a dire quella cosa!»
Girò la faccia dall’altra parte, poi, con la voce un po’ roca di chi trattiene la propria voglia di piangere mi disse: «Non provare mai più a dire una cosa del genere. Vivere è la cosa più bella che c’è. Ce l’hanno insegnato anche al catechismo.»
Mi sentii un verme e tale mi sento ogni volta che ci ripenso. L’avevo fatta stare male, l’avevo fatta piangere. Non so cosa avrei dato per poter tornare indietro, anche solo di due minuti, per potermi rimangiare quella frase. Elena restò triste per tutto il pomeriggio. Le avevo ricordato Gino, i suoi due nonni, morti a distanza di pochi mesi uno dall’altra, quella sorellina che lei non aveva mai conosciuto. Non trovai il modo di risollevarla, di farle pensare a qualche momento bello. Non fui in grado di rimediare al mio errore, come non potrei ora rimediare agli errori compiuti successivamente. Decisi di lasciarla un po’ sola con i suoi pensieri, con i suoi ricordi. L’avrei fatta stare sicuramente peggio, con le mie parole inutili, vuote. Non si può nulla contro la morte. Ad essa si possono opporre solo i ricordi, la si può contrastare solamente con l’amore. Non c’erano stati molti motivi di tensione, tra noi. Cercavamo di tenere la tristezza lontana da quel piccolo mondo composto da noi due, dalla nicchia e dal fiume. Tutto quello che succedeva al di fuori di noi, purtroppo, costituiva un saldo legame nei confronti della vita di tutti i giorni, di quella vita che ci vedeva crescere un giorno dopo l’altro, che ci stava portando verso quell’età nella quale un bambino e una bambina diventano un ragazzo e una ragazza. Quell’età che, purtroppo, porta a vedere i rapporti in un modo totalmente diverso. Mi sento solo, in questo momento. Ho staccato la spina ormai da un mese, da quella sera in cui mi accorsi di non aver vissuto gli ultimi sei, quasi sette, anni. Il passato remoto e quello più recente si mescolano nei miei ricordi, facendomi capire quanto poco io abbia saputo dare. Ho preso coscienza di essere l’unico artefice del fallimento della mia vita, l’unica causa della mia decisione. Non mi serve a nulla scorrere il libretto dell’università, rileggere i miei voti, pensare al fatto che la laurea, con un piccolo sforzo ancora, sarebbe una realtà. Non mi aiuta neppure la buona volontà di mio cugino, che mi invita sempre fuori con lui e la sua compagnia. Povero Andrea. Credo di fargli un po’ pena. Se solo sapesse quello che sto pensando di fare verrebbe a vivere qui per tenermi d’occhio. Anche l’altro giorno, mentre tornavo dal cimitero, ci siamo incrociati. Ho fatto finta di non vederlo, camminando con la testa bassa. Credo che se ne sia accorto e che ci sia anche rimasto male. Mi dispiace per il mio comportamento, ma quando torno dal camposanto non voglio nessuno intorno. Devo poter stare solo coi miei sentimenti, coi miei dubbi, col mio rimorso, quello più grande, quello che mi ha aperto gli occhi. Tornavamo dal cimitero, sotto la neve. Era dicembre, il Natale alle porte. Avevamo salutato Gino con la promessa di tornare prima dell’anno nuovo, col solito segno di croce. I nostri doposcì affondavano nel soffice manto per una decina di centimetri.
«Che ne dici di andare al fiume?»
«Sì, ho proprio voglia di vederlo! È da un po’ che non andiamo. Prima la pioggia, adesso la neve, se non ci sbrighiamo mi sa che lo rivedremo solo a primavera!»
Ci incamminammo verso la solita stradina. Non restammo tranquilli per molto tempo.
«Cosa stai facendo? No, Dario! Non ci provare! No!»
Mi era sempre piaciuto giocare a fare l’uomo di neve. L’avevo spinta in un mucchio che c’era ai bordi della strada, spalato via dallo spartineve dopo la prima nevicata.
«Lascia che ti acchiappi e poi vedrai! Non la passerai liscia, stavolta!»
«Sì, sì! Intanto prima dovrai prendermi!»
Non riuscii quasi a terminare la frase. Mi ritrovai con la faccia nella neve. Elena aveva trovato un complice in un grosso sasso, contro il quale il mio piede destro era andato a sbattere. Il tempo di girarmi e me la ritrovai addosso, con una manciata di neve pronta ad entrarmi dal colletto.
«No, dai… non avrai il coraggio di farlo? »
«E tu? Tu ce l’hai avuto il coraggio di farmi fare l’omino, no? E adesso subisci le conseguenze!»
Sentii un brivido scendere lungo la schiena, mentre lei rideva di gusto. Cercavo di divincolarmi, ma la posizione più vantaggiosa era senz’altro la sua. Mi fece rigirare quattro, cinque volte. Rotolammo nel campo che affiancava la strada. Devo ancora capire come riuscimmo a non finire nel fosso, ma, tant’è, ci rincorremmo in quel campo nel quale la neve era più alta, sfiorava il mezzo metro, per quasi mezz’ora. Ci fermammo soltanto quando ci accorgemmo di essere bagnati fradici.
«Mi sa che sarà meglio smettere!»
«Lo penso anch’io, ma non possiamo presentarci a casa in questo stato: va bene che sta nevicando, ma io sono bagnato fino negli slip!»
«Anche io! Ho paura che stavolta rischiamo grosso!»
Il viaggio al fiume era rimandato, ma rischiammo di vedere rimandata ogni nostra uscita per i due anni successivi. Paola e mia madre erano a casa mia a bere un tè caldo, reduci da un raid nei negozi della città vicina. Entrammo in casa come se nulla fosse successo, ma non appena le nostre giacche scoprirono i vestiti praticamente zuppi, fummo investiti da una serie di ‘complimenti’ non indifferente. La cosa più simpatica che ci dissero fu: «Disgraziati!» Non so cosa le trattenne dal darci una mano di botte. Paola trascinò via Elena e la portò a cambiarsi, con la promessa di tornare di lì a poco. Non appena fummo soli, mia madre mi disse: «Ti meriteresti di non uscire più per due mesi! Ti va solo bene che siamo sotto Natale e mi sembra una punizione esagerata, altrimenti… comunque sia, troverò il modo di punirti adeguatamente.»
Onestamente, avevo pensato peggio. Di quella ventilata punizione non si fece più nulla, anche perché, al ritorno delle nostre due amiche, Elena e io ci mettemmo a studiare geografia. Ancora due giorni di scuola e poi, finalmente, un paio di settimane di meritato riposo. Natale era il periodo più bello, per noi due, quello nel quale riuscivamo a stare meglio, più sereni. Il pomeriggio dopo, siccome non avevamo compiti, domandammo alle nostre madri di lasciarci andare in città, con il pullman. Acconsentirono, anche se malvolentieri. Partimmo, per la prima volta da soli, con tutti i nostri risparmi in tasca. Volevamo comprare qualcosa per i nostri genitori, qualche bel regalo da far trovare sotto l’albero. Scendemmo all’ultima fermata, sotto un cielo carico che prometteva neve. Facemmo un giro guardando le vetrine della via principale, bellissime con tutte quelle luci. Ci fermammo davanti ad un negozio di casalinghi.
«Guarda che bella, quell’oliera!»
Elena me la indicò.
«Entriamo a chiedere quanto costa!», proposi io. Il negozio, aperto da poco più di dieci minuti, era semivuoto. Una signora anziana ci venne incontro.
«In cosa posso esservi utile?»
Sorrideva.
«Vorremmo sapere quanto costa quell’oliera in vetrina.»
«Vediamo.»
Tirò fuori un quaderno e cercò per qualche secondo.
«Diciottomila lire.»
Elena e io ci guardammo, poi, in coro: «Ne vogliamo due!»
La signora ci guardò con tenerezza, poi, con movimenti lenti forse dovuti all’età, tirò giù dallo scaffale alle sue spalle due scatole di cartone.
«Volete regalarle?», fu la sua domanda. Le dicemmo che erano regali per i nostri genitori e le domandammo per piacere di preparare lei i pacchetti. Aprì le due scatole per verificare che le parti in vetro fossero intatte, poi, sempre lentamente, cominciò ad impacchettarle. Scelse una carta rossa e un bel nastro dorato. Le mani abili si muovevano per preparare i fiocchi, mentre noi due cercavamo i soldi nei nostri portafogli a strappo. Ultimò i pacchetti, poi li mise in una borsa di plastica, affiancati, per non rovinare le confezioni.
«Datemi sedicimila lire a testa. A due bambini generosi come voi posso anche fare un bello sconto!»
La ringraziammo e, uscendo, le augurammo di trascorrere delle buone feste. Cominciava a nevicare. Avremmo voluto girare ancora per un po’, ma eravamo senza ombrello. Corremmo a ripararci sotto i portici, ad una ventina di metri dalla fermata dell’autobus. Ci sarebbero voluti ancora venti, venticinque minuti prima di poter tornare a casa. Ci sedemmo sulla panchina, con il fiatone.
«Hai visto quante belle cose c’erano in quel negozio?»
Le brillavano gli occhi.
«Ho visto degli animaletti bellissimi fatti in vetro. C’erano un gattino, un cagnolino, un topolino, perfino un elefante! Mi piacerebbe proprio averne uno! Dario, ma mi ascolti?»
«Come? Cosa dicevi?»
«Niente, niente. Lascia perdere!»
Non era vero che non avevo sentito. Avevo captato ogni singola parola e mi era venuta in mente un’idea bellissima. Il tempo, lì seduti, non ne voleva sapere di passare.
«E se ci comprassimo un giornalino?»
L’edicola era lì vicina. Bastava attraversare la strada che separava e separa tuttora le due file di portici e camminare per una ventina di metri.
«Ma no, lasciamo perdere. Non ho voglia di leggere!»
Le diedi retta. Cominciammo a parlare delle vacanze e di quello che avremmo fatto.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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