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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

«La sera della vigilia di Natale ci troviamo alle undici e un quarto, come tutti gli altri anni?»
«Va benissimo, così possiamo andare a servire messa. Anzi, quasi quasi ci possiamo trovare anche prima, subito dopo cena.»
L’idea mi piacque.
«Sì, potremmo vederci verso le nove a casa mia, così giochiamo a Monopoli e guardiamo la televisione: c’è il circo.»
Sapevo già come sarebbe andata, con Candy piazzata sul tavolo, nel bel mezzo della plancia di gioco. Era semplicemente terribile, quando ci si metteva. Non appena si accorgeva che Elena e io non la consideravamo e non giocavamo con lei, cominciava a mettersi al centro dell’attenzione, a saltare da un divano all’altro, ad aggrapparsi alle tende, lanciandosi come Tarzan. Sembrava un bambino geloso, invidioso dei divertimenti che non lo coinvolgono. L’ultima volta che ci eravamo messi a giocare a Monopoli avevamo corso il rischio di rimanere senza i segnaposto in legno. Candy aveva fatto suo il sacchetto di plastica che li conteneva e, incurante delle nostre grida e delle nostre proibizioni, lo aveva nascosto sopra all’alto armadio che c’era in camera mia. Non si poteva punirla in nessun modo. Se la chiudevo in una camera a chiave me la vedevo sbucare sul balcone con quel musetto simpatico che pareva quasi sorridente per la marachella combinata. Aveva imparato ad aprire le finestre e l’unico modo per impedirle di scappare era quello di tirare giù tutte le tapparelle. Era come avere un bambino terribile per casa, con la differenza che il bambino non è in grado di appendersi al lampadario.
«Senti, pensavo che se ci troviamo a casa mia sarà meglio che Candy passi la serata da te. Non vorrei mai dover litigare con i miei anche la sera della vigilia!»
«Hai ragione. Appena a casa lo chiederò a mia madre. Penso che a lei non dispiaccia. In fondo è già da un po’ che non la tengo.»
Il pullman era arrivato, con un po’ d’anticipo. Salimmo e facemmo i biglietti, sedendoci negli stessi posti di quel pomeriggio di fiera.
«E adesso dove li nascondiamo i pacchetti?»
«Eh già, è un bel problema. Se solo una delle nostre madri non fosse a casa.»
La fortuna non ci venne incontro. Passammo prima da casa sua. Paola era alle prese con una rollata ribelle. Decidemmo di salutarla e di provare ad andare da me. Nascondemmo la borsa di plastica nella siepe davanti al portone di casa mia.
«Speriamo che i pacchetti non si bagnino!»
Entrammo. Era nel bagno, china sulla vasca, il profumo del Cif nell’aria. Poteva essere il momento buono.
«Ci mettiamo a vedere un po’ di televisione.»
Elena uscì velocemente e andò a recuperare la borsa. Il mio cassetto privato poteva essere il posto ideale. Entrò in casa silenziosamente con la giacca chiusa e con un girovita almeno doppio rispetto a quando era uscita.
«Cosa state combinando, voi due?»
Non ci voleva. Era uscita dal bagno per andare a prendere un paio di stracci che le servivano per asciugare la vasca.
«Sto parlando con voi due!»
Uscimmo di corsa.
«Ci abbiamo ripensato. Preferiamo andare a giocare sulla neve!»
Avevamo corso un bel rischio. Appena usciti ci ritrovammo a ridere come due folli. Il problema, però, rimaneva.
«Ma io ho le chiavi del garage in tasca!»
«Bravo merlo! Non potevi ricordartene prima? Mi hai fatto fare la figura della scema per niente!»
Mi spintonava, mentre io ridevo più forte e di gusto di prima. Riuscimmo, con un po’ di fatica, ad aprire la grande porta della rimessa. In fondo, in un angolo del grande scaffale, c’era la valigia che mio padre utilizzava quando gli toccavano le trasferte all’estero.
«Mettiamoli lì. Dopodomani, quando verrai, troveremo una scusa e verremo a prenderli. Dovrebbe venire anche tua madre, no?»
«Lo spero! Altrimenti mi aggiusterò diversamente.»
Ci salutammo, dandoci appuntamento per l’indomani, a scuola. La mattinata successiva passò velocemente, tra una fetta di torta, un bicchiere di aranciata e qualche gioco. Era tradizione che l’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale si facesse una festicciola, partendo dall’intervallo e continuando per tutte le ultime due ore. Lo si poteva considerare come un regalo della maestra. Sapeva quanto noi bambini amassimo quelle improvvisate e ci accontentava volentieri. Severa il giusto, preparatissima. Sarebbe stato il suo ultimo anno di insegnamento. La pensione la attendeva e con essa la conclusione di una carriera quasi quarantennale.
«Mi mancano tanto i bambini e il mio lavoro!», mi confidava ogni volta che la andavo a trovare. Aveva dato tutta la sua vita per quei bambini che tanto amava e che mai aveva potuto avere. Rimase vedova l’estate prima di accoglierci in prima, ma non ci fece mai mancare il proprio nerbo, la propria vitalità. Dovrei andare a trovarla, ma non ne ho il coraggio. Lei capirebbe. Le basterebbe guardarmi negli occhi per capire quello che ho intenzione di fare o quantomeno per comprendere che c’è qualcosa di molto grosso dietro le mie pupille spente. In questo momento, quello nel quale sono più convinto, non devo vedere assolutamente nessuno. Devo poter stare solo con me stesso e i miei pensieri. Davanti a me ho la foto scattata alla mia classe proprio in quel giorno. Eravamo tutti sorridenti, chi con le guance rosse per le corse appena finite, chi con la fetta di torta in mano. C’è lei, sorridente, con quello sguardo che mi fissa dalla carta lucida. Sento un nodo alla gola, ma so che devo andare avanti a scrivere. Ora che finalmente sono deciso non devo perdere tempo. Devo recuperare quella parte di me che avevo perso per strada, devo ricordare, farmi male, soffrire almeno quanto hanno sofferto le persone che mi hanno circondato negli ultimi anni. Non posso farne a meno. Mi sembrerà di essere meno sporco, di aver reso giustizia, almeno un po’ di giustizia, a chi mi ha voluto veramente bene, a chi è stato ripagato col male. Un male nato dal dolore, dalla disperazione, ma un male per il quale non esiste e non può esistere nessuna giustificazione. Ho in mente il suo sorriso, la sua eccitazione nell’aprire il pacchettino che le avevo appena dato.
«Ma questo è quel topolino di vetro che avevamo visto al negozio! Grazie, grazie, grazie!»
Un sonoro schiocco, un bacio sulla guancia. Poco importava che quello non fosse vetro, ma cristallo. Poco importava anche il fatto che i miei risparmi non esistessero più. Lei era felice. Rideva e guardava il topolino con quegli occhi che mi sono sempre portato dietro nei ricordi, quegli occhi che anche ora mi guardano con compassione. Mia madre, vedendo la scena, sorrise. Era stata la mia preziosissima complice. Una volta rincasato dopo aver nascosto i pacchetti, infatti, le domandai di svolgere una commissione per mio conto, il mattino dopo. Le diedi indicazioni precise sul negozio e sul tipo di animaletti che avevamo visto, avendo l’accortezza di tacere il motivo per il quale eravamo entrati proprio lì. Le consegnai il mio portafogli, lo stesso con il quale avevo pagato l’oliera e nel quale avanzavano ben pochi soldi , dicendole di comprarne uno carino, simpatico, adatto ad Elena. Rimasi un po’ male quando, tornando a casa da scuola, lo ritrovai completamente vuoto, ma nella mia ignoranza non potevo sapere il prezzo di quei preziosi manufatti. Nemmeno avrei potuto immaginare che mia madre stessa avesse aggiunto una buona fetta di capitali per l’acquisto. Chissà cosa staranno facendo, ora, lei e mio padre. Per la prima volta da cinque anni a questa parte sono riusciti a scappare per una decina di giorni, per una vacanza che forse servirà a rinsaldare il loro rapporto, in crisi per colpa mia. Loro non riescono a capire quello che sto covando, ma il mio comportamento, la mia chiusura, li ha portati a forti contrasti. Non hanno idea di quanto due episodi, uniti a sentimenti più grandi delle persone stesse che li provano, possano influenzare le scelte, la psiche di chi li vive passivamente e attivamente allo stesso tempo. Avrei potuto fare in modo che nessuno dei due accadesse, che il primo non uccidesse tutto ciò che di buono c’era in me e che il secondo, indissolubilmente legato all’altro attraverso me, non mi riducesse in questo stato, ucciso dai rimorsi prima che dalla mia volontà. Non ho mai creduto alle frasi del tipo “Mi è passata davanti agli occhi tutta la vita, come in un film!”, ma è proprio quello che mi sta succedendo. Particolari di un episodio che, sulle prime, mi erano sembrati insignificanti, indegni di menzione, di ricordo, mi portano alla mente sfaccettature dell’unica persona della quale mi sia mai importato qualcosa. Mi fa quasi senso scrivere queste parole. Il cinismo che mi ha accompagnato negli ultimi anni mi aveva fatto dimenticare quanto sia bello offrirsi agli altri, quanta emozione si possa provare al fianco di una persona che da amica, crescendo, si trasforma in qualcosa di più. Non è possibile capire i disegni che chi sta sopra a noi realizza, quei progetti che coinvolgono indistintamente tutte le persone, miliardi di piccole formiche che vanno ogni giorno inconsciamente incontro al proprio destino. Non è possibile capirli, no, ma maledirli… i destini delle persone si incrociano e da essi nascono i sentimenti, le preoccupazioni, la morte. A volte pochi secondi, pochi interminabili e maledetti secondi, segnano più di una vita. Si ergono come dighe davanti ai sentimenti e alla ragione, ti si appiccicano addosso a formare una scorza, un guscio duro più dell’acciaio, ti staccano da quel mondo pieno di persone delle quali non ti importa. Arrivi persino a credere che tutto ti sia dovuto, che tu abbia già sofferto abbastanza, che adesso tocchi agli altri. Quelli che ti si stringono attorno quando il dolore è appena cominciato e che spariscono quando si fa più vivo, quando capisci che hai perso molto di più che una persona cara. È banale dire che, a volte, con chi ci lascia se ne va anche un pezzo di noi. È banale, ma a me è successo. È come quando si sradica un albero secolare. Con sé porta anche molta buona terra, quella terra nera che gli ha consentito di crescere e di resistere alle insidie del tempo. Con lei è scomparsa quella terra nera che mi aveva fatto crescere dentro, che mi stava facendo diventare uomo. La confusione nella mia testa aumenta esponenzialmente. Torna alla luce un ricordo sepolto, uno dei tanti che ci vedono soli, le bici in un angolo, davanti al fiume. Il rumore dell’acqua. Non esiste un modo per descriverlo, per far capire la bellezza, la gioia che dà ascoltarlo quando si è in pace con se stessi. Non esiste un modo per descriverlo, per far capire la paura, il ribrezzo che dà ascoltarlo quando stai cominciando a vacillare. Tornando a quel giorno di un marzo già caldo. Le giornate cominciavano ad essere più lunghe, le gite, le battute di pesca anche. Non avevamo preso un granché, quel pomeriggio, così decidemmo di mettere da parte le canne e di sederci al sole.
«Tu ci credi ai giuramenti?»
La domanda mi aveva lasciato interdetto.
«Scusa?»
«Ti ho chiesto se credi ai giuramenti.»
Mi ci volle qualche secondo per riordinare le idee.
«Dipende dal tipo di giuramento che si fa. E poi ci hanno insegnato che giurare è male.»
La vidi pensierosa per qualche lungo momento.
«E se ti chiedessi di fare un giuramento con me?»
«Spiegami cosa vuoi dire.»
Non sapevo dove volesse arrivare, quindi la curiosità cominciò a farsi sentire.
«Stavo pensando di fare un giuramento come quello che ho visto ieri in un film. C’erano due ragazzi che sono diventati ‘fratelli di sangue’.»
«‘Fratelli di sangue’? E che cosa vuol dire?»
«Vuol dire che si sono giurati eterna amicizia. Poi, con uno spillo, si sono punti il dito indice della mano destra e hanno mischiato le gocce del loro sangue.»
«E allora?»
«Pensavo che sarebbe stato bello farlo. Però si fa soltanto con una persona che ti è veramente amica. Altrimenti non ha senso!»
La cosa mi affascinava.
«Proviamo!»
Elena sfilò da una manica della camicia un ago («L’unico che ho trovato», mi spiegò) e mi prese la mano destra.
«Ripeti con me quello che dirò: “Io giuro eterna e fedele amicizia…”»
«Io giuro eterna e fedele amicizia…»
«“… alla persona con la quale adesso mescolerò il mio sangue.”»
«… alla persona con la quale adesso mescolerò il mio sangue.»
Punse prima il mio dito e poi il suo. Li avvicinammo e le due gocce di sangue vennero in contatto. Con il suo polpastrello, poi, cominciò un movimento circolare sul mio. Dopo qualche secondo smise, tolse il dito e lo mise in bocca. Lo feci anche io. Mi piacque il gusto del sangue, quel sapore un po’ metallico che avrei incontrato altre volte nella mia vita, ma che fino ad allora era stato a me sconosciuto. Tolse l’indice dalla bocca e, con quell’aria seria e al contempo canzonatoria che solo lei aveva, mi ammonì: «Non dire mai a nessuno di questo giuramento, altrimenti la nostra amicizia si romperà nel momento esatto nel quale romperai il segreto.»
«Giuro che non ne parlerò mai con nessuno. Sai che di me ti puoi fidare, no?»
Le strizzai l’occhio e lei sorrise sollevando un angolo della bocca.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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