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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

«Dì un po’: cosa ti prende?»

«Hm? »

«Cosa ti è preso?»

«Assolutamente niente, perché?»

Il mio tono di voce, me ne accorsi, non era il solito.

«Mi sembra che tu sia molto giù di morale. Sbaglio?»

«Sì. Sbagli.»

Mi feci quasi scortese.

«Ok, ho capito. Smettiamo di giocare e parliamo di cosa ti preoccupa.»

Fece per posare le carte sul sedile.

«No! Continuiamo a giocare. Non ho assolutamente niente.»

Mi guardò come mai aveva fatto, con lo sguardo obliquo, sospettoso. Aveva sicuramente capito che volevo nasconderle qualcosa.

«Va bene. Comunque sia, secondo me è successo qualcosa. O forse ho detto qualche frase che ti ha offeso? Eppure…»

«Ti ho detto che non ho niente, va bene? È solo che non sopporto più le continue intrusioni e battutine del prof., ok?»

Non le avevo mentito. In quel momento provavo una forte rabbia nei confronti di quel ficcanaso. Sembrava che mi avesse preso di mira, che volesse a tutti i costi farmi scoprire in un modo che a me non piaceva.

«Se è solo per quello, neppure a me va giù la sua finta ironia, ma, come vedi, gli rispondo a tono!»

Mi sollevò il viso con l’indice e il medio della mano destra, mi guardò e mi sorrise. Non riuscii a sciogliermi, ma abbozzai anche io un mezzo sorriso. Forse avevo sciupato un’occasione. Forse avrei dovuto prendere la palla al balzo quando mi aveva domandato cosa io avessi. Forse avrei dovuto dirle «Ci sono rimasto male perché io ti amo!»

Forse, più semplicemente, avrei dovuto far finta di nulla. Rimasi di cattivo umore per tutto il viaggio di andata. Mi affossai nel sedile, con la musica altissima nelle orecchie e il libro davanti, aperto sempre alla stessa pagina. Ogni tanto mi giravo verso di lei, per vedere cosa stesse facendo. La scoprii più di una volta mentre mi fissava, ma non ebbi né il coraggio, né la voglia di chiederle il perché di quella sua attenzione nei miei confronti. Forse, come al solito, non ero riuscito a convincerla, con la mia precedente spiegazione. Quando la cuffia portò nelle mie orecchie le note di Ti amo, di Umberto Tozzi, mi venne quasi spontaneo cominciare a cantare sottovoce. Non era da molto che mi ero affezionato, appassionato, per meglio dire, a quel genere di musica. Avevo trovato una cassetta di mia madre. Era una miscellanea di canzoni di fine anni ‘70. Tra queste, Gloria, Tu e Ti amo. Non ci era voluto molto a capire che quell’autore cantava esattamente quello che io avrei voluto essere in grado di dire. Cominciai così ad acquistare cassette e LP, ad ascoltare e riascoltare le stesse canzoni, cercando uno spunto per potermi finalmente dichiarare a lei. Anche Elena cominciò a condividere il mio stesso interesse, aiutandomi ad andare in giro per i negozi di musica alla ricerca di ‘pezzi pregiati’. Cantare quella canzone con lei a pochi centimetri da me. Quanto avrei voluto girarmi, fissarla negli occhi mentre ripetevo il ritornello! Quanto sarebbe stato tutto più facile se lei avesse capito che stavo rubando le parole di altri per farle sapere quello che avevo dentro, quello che provavo. «… semplicemente amici…»

Quella frase continuava a rimbombarmi nella testa. Molte altre volte l’avevo sentita mentre la pronunciava, ma mai e poi mai con la convinzione di quel giorno. Soffrivo. Soffrivo veramente. Avevo proprio accusato il colpo. Ci fu un attimo nel quale un nodo alla gola mi portò quasi a piangere, ma riuscii a trattenermi, sebbene a fatica. Sarebbe stato un disastro totale un pianto in quel momento. Sarebbe stata la dimostrazione di quanto ero bambino proprio nel giorno in cui avrei voluto dimostrare quanto ero uomo, quanto ero pronto a qualcosa di più. Quelle considerazioni restarono solo nella mia testa. La verità era che ero veramente ancora troppo bambino, troppo immaturo, troppo egoista. Quando giungemmo a destinazione, nel parcheggio dell’hotel che ci avrebbe ospitati, del quale ho rimosso il nome dalla memoria, mi alzai dal mio posto con la mente completamente annebbiata.

«Aspettiamo che siano scesi tutti, così non ci facciamo spingere su e giù.»

Le sue parole ebbero il potere di risvegliarmi, di riportarmi a quella realtà che mi voleva con lei a Firenze, in una città che mi aveva sempre affascinato per la sua arte ma della quale, ora, ricordo ben poco. La mia attenzione, naturalmente, in quei giorni fu rivolta a ben altro. Anzi. A ben altra. Firenze. Avrei avuto l’opportunità di tornarci, ma quando Mara me lo propose, un paio d’anni fa, rifiutai quasi sdegnato. Mi avrebbe fatto troppo male tornare in quella città, rimettere piede nelle chiese e nei musei visitati qualche anno prima con Elena. Chissà, magari avrei potuto crescere un po’. Dicono che il dolore faccia diventare adulti più in fretta. Io non ci credo molto, anzi, proprio per niente. Il dolore sa far crescere soltanto la rabbia o la rassegnazione che albergano in una persona. A me ha fatto proprio questo effetto. Prima la rabbia, poi la rassegnazione. Prima la voglia di sottomettere il mondo intero ai miei bisogni, poi il desiderio di sparire, di farmi travolgere dal rimorso, dallo schifo. Già. Prima ti fa schifo tutto ciò che ti circonda. Usi tutto e tutti, come se anche le persone fossero oggetti deputati a soddisfare le tue voglie e i tuoi capricci. Poi l’oggetto del tuo schifo cambia. Cominci a non poterti più guardare allo specchio, ad odiarti quando parli, quando ti muovi, quando scrivi, quando piangi. Quando pensi. Le lacrime sono soltanto più una dimostrazione di egoismo, di ulteriore cattiveria. Si piange quando ci si fa del male, quando qualcuno ci fa del male. Piangi per chi non c’è più, ma più che altro piangi per te stesso, in nome dell’affetto o dell’amore che ti legava a quella persona. Sai benissimo che sta meglio chi muore, magari in preda ad una malattia degenerativa che porta solo sofferenza, ma intanto piangi. Sai che qualunque cosa ci sia dopo la morte non sarà mai peggiore del mondo in cui viviamo, ma intanto piangi. Piangi solo perché stai male. In fondo sai che tu sei ancora qui a soffrire, mentre chi muore no. Ho una grande confusione in testa. Forse sarà meglio cercare di affondare nella nostalgia che mi danno i ricordi di quella gita, il viso di Elena, la bellezza, non solo esteriore, di Mara. Firenze. Passammo il primo pomeriggio a disporre i bagagli nelle camere. Gianni, Fabio e io ci eravamo visti assegnare la stanza 106, mentre Simona, Benedetta ed Elena avevano preso possesso della 107. Un paio di porte più in là, purtroppo, i professori. Sarebbe stato quasi impossibile muoversi nottetempo senza farsi scoprire. Quasi. Dopo la cena, una breve passeggiata e il gelato, infatti, quella sera rientrammo pochi minuti dopo le ventidue. Avevamo confabulato durante tutto il tragitto dalla gelateria all’hotel, ma avevamo raggiunto un accordo. Noi tre della 106 ci saremmo recati a trovare le compagne della 107 verso le ventitré o giù di lì, per una partita a carte o anche solo per fare quattro chiacchiere. Non era un segreto, poi, che tra Fabio e Simona ci fosse del tenero, così avremmo favorito quell’eccitantissimo “incontro clandestino”. Non chiudemmo a chiave la stanza, rientrando. Avremmo fatto sicuramente meno rumore. Pochi minuti prima che ci muovessimo, però, accadde un inconveniente non da poco. Il professore di matematica. La mia più grossa rottura di scatole per quella gita. Non contento delle brillanti osservazioni fatte durante il viaggio, che mi erano costate diverse ore di malumore, cominciò a bussare alle porte delle stanze dove eravamo alloggiati per verificare che nessuno mancasse all’appello. Cominciò il giro quattro stanze più in là, fortunatamente, così da darci la possibilità di infilarci in tutta fretta i pigiami.

«Tutto a posto, qui?»

La vista dei letti disfatti lo tranquillizzò. Non lo tranquillizzò per niente, invece, trovare le ragazze ancora vestite come quando eravamo usciti.

«Ragazze?! Cosa ci fate ancora in questo stato? Non vi sembra un po’ tardi per uscire?»

«Non si preoccupi, prof.! Non abbiamo nessuna intenzione di uscire! È solo che ci siamo messe a discutere subito dopo il rientro per decidere chi doveva usare il bagno per prima e siamo ancora qua che discutiamo!»

«Va bene, ma adesso andate a letto. Domani sarà una giornata molto lunga. Ci vedremo alle otto in punto per la colazione. Buona notte.»

«‘Notte!»

Il coretto lo soddisfò. Ultimò il suo giro una quindicina di minuti più tardi, dopo aver sequestrato una stecca di sigarette ad alcuni ragazzi dell’altra classe.

«Queste non fanno per voi!», disse. Un vero seccatore. Scoprimmo in seguito che quella stecca finì tutta nei suoi polmoni. Lasciammo passare qualche minuto dopo averlo sentito chiudersi in camera. Decidemmo di uscire in pigiama, pronti per qualunque evenienza. La stanza aveva una specie di balconcino, particolare che ci suggerì di lasciare la finestra aperta. In caso di emergenza avremmo potuto passare di lì, saltando dal balcone della 107. Sarebbe stato rischioso, ma a noi poco importava. Bussammo molto delicatamente e altrettanto delicatamente e silenziosamente ci fu aperta la porta. «Embè? Come mai in pigiama?»

Mi affrettai a spiegare la situazione, mentre le nostre tre amiche sorridevano. Sbrigate quelle piccole formalità, passammo le tre ore e mezza successive a parlare, a ridere, a scherzare. Il mio umore non era ancora dei migliori, ma vedere Elena così sorridente, così allegra mi dava una mano a risollevarmi un po’. Al momento di accomiatarci, però, un rumore proveniente dal corridoio ci fece prendere un colpo. Avevamo sentito in maniera chiara e inequivocabile lo sbattere di una porta.

«È di nuovo il rompiballe! Presto! Via!»

Fabio fu il primo a portarsi sul balcone e a saltare di là, incurante del pericolo. Gianni andò per secondo, mentre vicino alla porta si udivano dei passi. Mi feci coraggio e mi avvicinai anche io alla ringhiera. Proprio mentre stavo per saltare di là, però, Elena mi venne a fermare.

«No, non di lì! Chiunque fosse ha preso l’ascensore. Non sta facendo il giro del piano!»

Le diedi retta e provai ad uscire dalla porta. La chiave della stanza era in mano mia, quindi non avrei avuto problemi ad entrare. In un attimo sgattaiolai dentro la 106, ma non fui molto accorto nell’evitare i rumori. Mi aspettavo una nuova perquisizione da un momento all’altro e non riuscii a prendere sonno che alle quattro passate. Il professore si rifece vivo solamente verso le otto, per assicurarsi che scendessimo tutti in orario per la colazione. Mangiai con gli occhiali da sole sul naso ,in maniera da coprire le gigantesche borse che affioravano sotto i miei occhi. Anche ora ho un aspetto orribile. Molto probabilmente tutto il male che ho dentro è uscito finalmente allo scoperto, segnandomi il volto, ma non solo. Le mie mani sono piene di vene affioranti che fino a poco tempo fa non c’erano, mentre continuando a non mangiare ho già perso quasi dieci chili. Sembro un malato. Forse lo sono. Soffro di quella malattia che già mille volte ho nominato. Rimorso, questo è il suo nome. Ma anche rabbia, per non aver capito in tempo. Rabbia, per la mia cecità, per la mia superbia, per la mia testardaggine ottusa. Man mano che le ore passano sento che il rancore nei miei confronti sta crescendo sempre più. Non voglio che raggiunga il culmine prima che io abbia vuotato il sacco, prima che mi sia sfogato dicendo tutto ciò che non ho mai avuto il coraggio di dire a nessuno. Nemmeno allo psichiatra dal quale mi hanno mandato i miei poco tempo dopo quella maledetta estate. Nemmeno a loro, che hanno sempre cercato di aiutarmi, di capirmi, che sono persino arrivati sull’orlo del divorzio a causa mia. Adesso devo farcela. Devo far sapere a tutti quali tarli mi stiano consumando, quali errori io abbia compiuto in così pochi anni. Non per farmi compatire, no. Solo per far capire a chi si trova nella mia condizione che non si vive solo per se stessi. Mai. Nemmeno quando ci si crede in credito nei confronti di tutto il maledetto mondo che ci circonda, nei confronti di quel Dio, di quella religione che diventa ogni giorno troppo pesante e troppo vuota per poter continuare a sentirla propria. È una sorta di J’accuse, ma sul banco degli imputati ci sono io. La prima giornata piena a Firenze fu realmente molto faticosa. Passammo in rassegna la metà delle chiese della città, giusto perché l’altra metà l’avremmo visitata il giorno successivo. Arrivai all’ora di cena completamente distrutto, con l’unico desiderio di andarmene a dormire. Non avevo fatto molti progressi con Elena. Avevamo trascorso tutte quelle ore insieme, ma non ebbi mai l’occasione per poter anche solo abbozzare il discorso. A dire il vero, forse non volli trovarla, l’occasione. Le parole del giorno prima erano ben nitide nella mia testa, così come lo sono ora. Mi ero addormentato alle quattro anche, forse soprattutto, pensando a lei. Avevo visto Fabio e Simona felici, molto felici insieme. Invidiavo ogni singolo bacio, ogni singola carezza che si erano scambiati. Guardavo il mio compagno di stanza e di letto mentre dormiva, rilassato. Sembrava in pace con il mondo, esattamente al contrario di come mi sentivo io. Mi era rimasta una domanda, che avrei voluto fare alla “mia” Elena.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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