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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

Sembrava un discorso da grandi, invece avevamo solo quindici anni. Solo quindici anni. Rimpiango quella gita, perfino la scazzottata con Carlo. Come vorrei che il tempo si fosse fermato, in quei momenti, in quell’albergo. Scorre, invece. Scorre come un fiume che trascina a valle le pene dell’umana specie, scorre come quel fiume che tanto amai. A volte si ferma, ma non per tutti. Solo per chi muore. Solo per chi passa in una dimensione senza tempo, senza spazio, forse senza sentimenti. A volte si ferma proprio ad un passo da te e tu non sei in grado di rimetterlo in moto. Puoi solo piangere. Puoi solo odiare tutti, indistintamente. Amavo Elena, ma volevo che nessuno lo sapesse prima di lei. Conclusi il discorso cercando di minimizzare, con un «Forse sono solo stanco.», sentendomi in colpa nei confronti di coloro che si stavano dimostrando amici disinteressati e sinceri. Proprio quella notte la sognai. È l’unico bel sogno con lei protagonista che io ricordi. Eravamo al fiume, come molte volte era accaduto davvero. Gli asciugamani sulla sabbia, le canne da pesca a terra, noi due seduti di fianco.

«Andiamo a farci il bagno!»

La sua voce rompeva un silenzio fatto di canti di cicale e di stormire di fronde. Ci ritrovavamo in acqua, vicini, sempre più vicini, fino a che i nostri corpi non si toccavano. Poi, all’improvviso, lei socchiudeva gli occhi e avvicinava le sue labbra alle mie. Ci baciavamo. Ad un tratto il fiume non esisteva più e ci ritrovavamo sospesi in una tavolozza dai mille colori. Abbracciati, leggeri, felici. Soli col nostro amore. Cominciavamo a volare, questa volta mano nella mano, e a sorvolare i luoghi della nostra infanzia, con i nostri genitori che ci salutavano dal basso. Mi svegliai mentre lei si avvicinava per baciarmi di nuovo. La delusione fu grande, ma quel sogno mi diede la forza per provarci ancora. Sarebbe stato tutto fantastico, proprio come in quel frutto della mia fertile fantasia, del mio inconscio che pareva molto più conscio di me riguardo a ciò che desideravo. Gianni e Fabio dormivano ancora. Erano da poco passate le sei. Aprii la portafinestra senza fare rumore e andai sul balconcino. Sia noi, sia le nostre compagne dormivamo con le tapparelle tirate su, per goderci fino all’ultimo la vista della città. Era ancora buio. Sopra la testa, qualche stella. Mi guardai un po’ intorno, poi mi feci coraggio. Saltai dall’altra parte, cercando di non farmi sentire. Avevano tutte e tre il sonno piuttosto pesante, quel mattino. Non si accorsero di me, quando mi avvicinai ai vetri per guardare dentro. Era veramente buio. Potevo distinguere a stento i lineamenti del suo volto, forse mi limitavo solamente ad indovinarli, a vederli laddove c’era soltanto il nero della notte che stava per finire. Ancora adesso non so cosa mi spinse a fare quel gesto. Lo feci e basta. Se la finestra fosse stata aperta, forse sarei anche entrato, forse l’avrei baciata. Non so. Era come se il mio sogno stesse continuando su quel terrazzino. Tornai con molta cautela in camera e mi coricai nuovamente sul letto. Sarebbe stato inutile riaddormentarsi, ma non mi sembrava neppure carino cominciare a fare rumore andando in bagno. Mi sarei mosso solo qualche minuto prima del suono della sveglia, quando il sole avrebbe cominciato, pur senza farsi ancora vedere, a diradare le tenebre. Accesi il walkman e ascoltai una delle cassette di Tozzi. “… tu sei di me / la parte migliore / tu sai di me / vergogne e paure…”

Proprio quello che Elena rappresentava per me. Non solo. Ormai era la mia ossessione, la mia stupenda ossessione. Non riuscivo a dimenticarla neppure per un momento. Nemmeno volendo, nemmeno provandoci con tutte le mie forze. Restai per circa mezz’ora come inebetito, con la musica piuttosto alta nelle orecchie. Quando i miei pensieri si fecero troppo pesanti decisi di alzarmi e di cominciare a prepararmi, in barba ai buoni propositi che avevo fatto nei confronti dei miei compagni. Mi infilai sotto la doccia, con l’acqua a malapena tiepida. Cercai di non bagnare la faccia. Mi faceva ancora piuttosto male, ma era un dolore sopportabile. Allo specchio potei notare un solo, grosso, livido, proprio sotto l’occhio sinistro, e un vasto arrossamento che copriva entrambe le guance. Spalmai un po’ di pomata, poi andai a vestirmi. I miei due soci non ne volevano sapere di alzarsi, così li chiamai a voce alta.

«Fabio! Gianni! Sveglia!»

Risposero con alcune frasi senza senso tipo «Mamma, metti fuori il gatto!»

Tolsi loro la coperta, ma neppure se ne accorsero. In mio soccorso venne la sveglia. Incredibile. Il rumore della doccia non li aveva minimamente disturbati. E io che mi ero fatto tanti problemi. Finalmente si alzarono.

«E tu? Cosa ci fai già vestito?»

«Mi sono svegliato presto e ho pensato di prepararmi. Adesso vado a bussare di là e sveglio pure le ragazze!»

Mi avviai mentre loro decidevano chi doveva andare in bagno. Arrivai davanti alla porta della 107. Tutto taceva. Bussai e restai ad aspettare. Siccome non ebbi risposta, continuai a bussare, con mano sempre più pesante. Dopo circa cinque minuti, finalmente, qualcuno venne ad aprirmi.

«E tu cosa vuoi?»

«Niente! Ero sveglio già da un po’ e ho deciso di venire a svegliare anche voi!»

«Grazie tante, ma avevamo la sveglia!»

Era ancora addormentata. Ebbi la tentazione di dirle del mio raid notturno, ma lasciai perdere.

«Ci vediamo tra una mezz’oretta qui, va bene?»

«Mmmh!»

Richiuse e io me ne andai in camera mia. Fabio era già pronto, mentre Gianni era ancora in bagno.

«Come va la faccia, stamattina?»

«Molto meglio! Anzi, adesso metterò un po’ di pomata, così prima che si esca sarà riassorbita.»

Una ventina di minuti dopo uscivamo tutti e tre. Ci piazzammo davanti alla camera delle ragazze e bussammo.

«Avevi detto mezz’ora!»

La voce di Elena, da dentro, ci faceva capire che non erano ancora pronte.

« Non preoccupatevi! Fate con comodo. Noi siamo qui.»

Mi misi a sedere per terra, mentre gli altri due rimasero in piedi. Fissai per qualche minuto il soffitto, assorto nei miei pensieri. Come sarei riuscito a farle capire tutto? Quale sarebbe stato il momento migliore? E poi ancora: mi avrebbe voluto come boy-friend? Stavo diventando matto. I momenti nei quali mi dicevo che sarebbe stato meglio non rovinare la nostra amicizia si facevano sempre più rari. Ormai mi ero convinto che era mio dovere almeno provarci. Il rumore della serratura mi rapì dai miei pensieri. Finalmente stavano uscendo. Già alcuni nostri compagni di gita erano scesi a pianterreno, nella sala da pranzo. Scendemmo velocemente anche noi, nella speranza di poterci sedere ad un tavolo da sei. Ne trovammo uno ancora libero, fortunatamente. Ci sedemmo e attendemmo che i camerieri venissero per l’ordinazione.

«Dormito bene, Tyson?»

Passato lo spavento per il giorno prima, ormai Elena poteva anche scherzarci.

«Non penso che “Iron” Mike abbia preso in tutta la carriera la stessa quantità di pugni che ho preso io ieri!»

«Eh! Esagerato!»

«Comunque sia, alle sei ero già in piedi! Non so, arriverò a casa stanchissimo!»

Ordinammo alla ragazza che era arrivata. Mentre attendevamo che ci portasse ciò che avevamo chiesto, giunsero i prof..

«Buongiorno, ragazzi! Fai un po’ vedere la faccia, tu! Mmmh. Sei ancora buono per un’altra volta, va!»

«Tutti simpatici, stamattina!»

Il professore di matematica sorrise e fece per andare al tavolo con gli altri.

«Ah, poi vorrei parlare con voi due. Da soli!»

Aveva indicato Elena e me.

«Ci vedremo nella mia stanza subito dopo colazione.»

«D’accordo!»

Mangiammo, parlando del più e del meno. Impiegammo meno di mezz’ora, poi, mentre le due coppie ci attendevano di sotto, Elena e io salimmo per il nostro appuntamento.

«Ti arrabbi se ti dico una cosa?»

«Dipende! Tu dimmela, poi deciderò se arrabbiarmi o meno!»

Sorrideva.

«Stamattina, non appena mi sono alzato, sono venuto sul vostro balcone.»

«E cosa ci sei venuto a fare? A vedere se da noi c’era una festa?»

«No! Non so nemmeno io il motivo. È stato come… vabbè! Lasciamo perdere! Intanto non riesco a spiegarmi!»

Mi guardò con aria sospettosa, poi si mise a ridere.

«E tu pensavi che mi sarei arrabbiata per una stupidaggine del genere? Come se tu non mi avessi mai vista dormire!»

Arrivammo davanti alla 110. La porta era socchiusa.

«Permesso?»

«Venite! Venite pure! Chiudete la porta, una volta entrati.»

Obbedimmo.

«Bene. Volevo solo informarvi che abbiamo pensato molto a quello che ci avete chiesto ieri. La situazione scolastica di Carlo non è delle migliori e una sospensione a questo punto del secondo quadrimestre potrebbe anche fargli perdere l’anno. Saremmo intenzionati a non prendere provvedimenti nei suoi confronti, ma al ritorno dovremmo parlare un po’ coi vostri genitori. E con quelli di Carlo, ovviamente. Anzi, dovrebbe quasi arrivare anche lui. Comunque sia, dovreste dire ai vostri compagni di non far parola a nessuno dell’accaduto, in maniera tale che questo episodio rimanga tra noi. Intesi?»

«Sì, certo! Grazie! Grazie mille!»

«Non è il caso di ringraziare. Mi auguro solo che episodi come questo non succedano più! Né in gita, né a scuola, né nella vita. Adesso andate a prepararvi. Dovremo ultimare il nostro giro della città.»

«Va bene. Grazie ancora.»

Ci avvicinammo alla porta proprio mentre qualcuno stava bussando.

«Ciao, Carlo!»

Rimase un attimo interdetto.

«Non ti preoccupare! È la camera giusta! Siamo stati convocati anche noi! Abbiamo appena finito. Se vuoi, ti aspettiamo qui fuori.»

«No, non è il caso. Andate pure. Ci vediamo dopo. Forse!»

Ci avviammo verso il pianterreno.

«Elena… senti…»

«Sì?»

«Niente…»

«Dario…»

«Sì?»

«Niente…»

«Che fai? Mi prendi in giro?»

«Mah? Indovina?»

Arrivammo dove gli altri quattro ci stavano aspettando.

«Allora?»

«Carlo non dovrebbe essere sospeso, ma bisogna spargere a macchia d’olio la voce che durante la gita non è successo niente.»

«In che senso?»

«Ma sì, nel senso che loro due non si sono scazzottati a causa mia!»

Quella frase mi fece un certo effetto.

«… a causa mia…»

Ebbi come l’impressione che lei avesse capito tutto e che si stesse solo divertendo un po’ come fa il gatto col topo. Cominciammo a spargere la voce anche agli altri, ricevendo da tutti garanzia che nessuno avrebbe mai spifferato una parola. Dopo qualche minuto scese anche Carlo. Aveva un’espressione indefinibile sul viso, in gran parte coperto dai cerotti rigidi.

«Posso parlarvi un momento?»

«Dì pure!»

«Intendevo da soli.»

Ci portammo in un angolo dove non c’era nessuno.

«Volevo ringraziarvi per ciò che avete fatto per me. Non vorrei, però, che voi pensaste che io sia venuto a scusarmi per ottenere qualcosa in cambio.»

«Figurati! Dopo ieri sera abbiamo capito che ognuno di noi può fare degli errori. Se si capisce di aver sbagliato, però, non è il caso di impartire punizioni o cose del genere. Anche io ho avuto modo di riflettere e di capire che non ho fatto una cosa giusta. Per quanto bene le voglia non ho nessun diritto di prendere a pugni chi la importuna!»

Mi ero tradito per la seconda volta in pochi giorni. Lei sembrò distratta, in quel momento.

«Beh, l’errore più grosso l’ho fatto io! Scusatemi ancora e… vedrò di sdebitarmi con voi! Mi avete evitato una sospensione sicura e… una probabile bocciatura. Non lo dimenticherò.»

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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