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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

Appoggiò la testa sulla mia spalla, questa volta piangendo. Mi confidò questa cosa la sera dopo la mia sbronza in discoteca. Forse avrei dovuto aprirmi di più anche io con lei. Forse avrei dovuto raccontarle tutto ciò che mi era capitato, avrei dovuto renderla partecipe della causa del mio cambiamento. Avrei dovuto fidarmi di lei come lei si era fidata di me. Tirò su la testa dopo qualche minuto.

«Scusami! Ieri sera mi sono detta disposta ad ascoltare tutti i tuoi problemi e poi, oggi ti ho tormentato io con i miei! Scusami! Veramente!»

«Non c’è bisogno di scusarsi.»

Nonostante l’aver provato quell’enorme dolore me l’avesse fatta sentire molto più vicina, non riuscii a dimostrarmi meno distaccato del solito.

«Volevo chiederti un piacere. Verresti con me, Domenica?»

«Dove?»

«Vorrei andare a trovare i miei genitori, ma non da sola. E nemmeno con i miei nonni. Vorrei, ecco, vorrei che mi accompagnassi tu!»

«Va bene. Ci metteremo d’accordo sull’ora in settimana, eh?»

Quella visita non l’ho mai dimenticata. La compostezza del suo dolore, le sue preghiere, sincere. La cura che metteva nell’aggiustare i fiori, nel pulire, con un fazzoletto, il vetro posto sulle foto dei suoi. Io, come al solito, nemmeno feci il segno di croce. Non credevo più. Nemmeno bestemmiavo, però. Sarebbe stata una cosa illogica. Bestemmiare verso qualcosa che non esisteva. L’avevo fatto solamente i primissimi giorni dopo il funerale di Elena. Mentre gli altri, intorno, continuavano a pregare. Ogni tanto, però, qualche “Madonna” mi scappava. Pioveva, mentre venivamo a casa dal cimitero. I tergicristalli di Bonnie stridevano sul parabrezza.

«Devo farli cambiare! Fanno troppo rumore, non trovi?»

Annuii.

«Come mai questo silenzio?»

«Niente! È che non so cosa dirti.»

«Guarda, non ti devi assolutamente preoccupare. Ormai, anche se è stata dura, il trauma l’ho superato. Certo, ogni tanto mi mancano da morire! Perfino le sgridate, figurati! Comunque sia, ho capito che devo continuare a vivere, a fare quello che loro si aspetterebbero che io facessi, a dare loro quelle soddisfazioni che si meritano. Anche se adesso non sono qui con me. Sai, io credo alla vita dopo la morte! Altrimenti sarebbe assurdo vivere, non trovi?»

Eh, sì! Aveva una maturità nettamente superiore.

«Se avessi saputo che ti saresti depresso in questo modo, non ti ci avrei portato!»

«No! Non è colpa tua. Ho solo un po’ di mal di testa.»

Non era assolutamente vero. Stavo pensando alla mia Elena e avrei voluto restare per un po’ da solo.

«Ti direi di stenderti dietro, ma sta venendo come Dio la manda e ti bagneresti tutto, scendendo.»

«Non ti preoccupare. Chiuderò gli occhi per qualche minuto.»

Ricordo quel viaggio soprattutto per la confusione che le parole di Mara mi avevano messo in testa. Come poteva essere così piena di vita dopo quello che le era successo? In cuor mio, comunque, restavo convinto che il dolore da me provato per la perdita di Elena fosse superiore al suo, che non potesse nemmeno essere avvicinato, ma… aveva una luce, negli occhi. Una luce che ben conoscevo, ma che non ho saputo riconoscere in tempo. La stessa luce che aveva la notte di Natale, quando mi consegnò il suo primo regalo.

«Aprilo, dai!»

«Ma? Io non ti ho preso niente.»

«Non fa niente! A me piace farli, i regali, non riceverli!»

«Una giacca? Ma? Io non le metto mai!»

«Non importa! Misurala, dai…»

«Va bene. Ecco fatto.»

«Perfetta! Certo che ho un occhio!»

«Ma, Mara, sai che a me non piace vestire elegante. Preferisco…»

«Prima o poi ti convincerai di quanto tu stia meglio tenendoti un po’! Nel frattempo, al tuo guardaroba penserò io!»

Il suo era uno strano modo di essere amica.

«Vieni! Usciamo!»

«Dove mi porti? Non ho voglia di uscire, dai!»

«E vieni! Non vorrai mica farti trascinare fino a… no! Non te lo dico! Quando ci arriveremo, lo vedrai. Prima, però, cambiati. Tieni su la giacca, così la inauguri. Vai, su!»

Sembrava mia madre, quando ancora non aveva perso la speranza di farmi comportare come lei credeva meglio. Se avessi saputo la destinazione di quel breve viaggio, non lo avrei intrapreso.

«Eccoci arrivati! Scendiamo.»

«Ma questa è la chiesa. Cosa mi ci hai portato a fare?»

«C’è la messa di mezzanotte, no? Beh, ci andiamo insieme!»

«Scordatelo.»

«Come, scusa?»

«Io non ci metto piede, in chiesa. Non credo più e non ho assolutamente intenzione di tornare a credere in qualcosa o in qualcuno che sa solo dispensare dolore a noi che viviamo su questa terra.»

«Ma…»

«Nessun ‘ma’! Me ne torno a casa.»

Feci per incamminarmi.

«Aspettami!»

Mi raggiunse dopo pochi passi.

«Ti prego! Spiegami questa tua avversione nei confronti della chiesa!»

«Non ce l’ho con la chiesa, né coi preti!»

«E allora? Con chi? Col Signore in persona?»

Non risposi.

«Dario! Ti prego! Non andartene!»

«Avresti fatto meglio a lasciarmi stare da subito, dal giorno nel quale mi hai conosciuto.»

«No, senti…»

«Lasciami stare, ti ho detto! Riprenditi la giacca e lasciami stare!»

Presi a correre, dopo averle lanciato il suo regalo. Non ero riuscito a controllarmi. Vedere la chiesa dove centinaia di volte avevamo servito messa, dove avevamo preso la Comunione, dove eravamo stati consacrati nella Cresima, dove avevamo passato tante notti di Natale. Era stato come impazzire, come sentire qualcuno che mi strappasse lo stomaco. A farne le spese, come sempre, del resto, Mara. Non capivo. Non capivo per quale motivo volesse farmi stare male così, volesse farmi fare cose che non sentivo. Cosa voleva, da me? Alla fine dei conti, ci conoscevamo da pochissimo e, di certo, non l’avevo cercata io, per primo. La odiavo, in quel momento. Mi ritrovai, non so neppure io come, sulla strada per il cimitero. Il grosso cancello in ferro battuto, come era ovvio che fosse, era chiuso. Ero in maniche di camicia, ma non sentivo freddo. Il cimitero non era custodito. Nessun guardiano, nemmeno i Carabinieri passavano da quelle parti. Senza quasi pensare a quello che stavo facendo, mi arrampicai tra cancello e muro, dove i mattoni lasciavano qualche possibilità di appiglio. Caddi un paio di volte, ma alla fine riuscii nell’intento. Era tutto buio, fatta eccezione per qualche cero che aveva resistito al forte vento di quei giorni. Non mi fu difficile individuare la lapide di marmo bianco, anche perché era sicuramente la più bella di tutte. Fiori e piante in tutte le stagioni. Anche d’estate, con più di trenta gradi al sole. Anche d’inverno, con la neve che cadeva copiosa, ricoprendo gli uni e le altre. Il cielo, minaccioso fin dal primo pomeriggio, decise che era giunto il momento di sfogarsi. Cominciò a nevicare, mentre io distendevo il mio busto sulla pietra. Piansi. Piansi lacrime d’odio. Lei, sorridente, mi guardava da quel portafoto ovale. Non ricordo quanto mi fermai. Ricordo solo che avrei voluto farlo per sempre. Arrivai nel vialetto verso le tre. Voltato l’angolo, proprio davanti alla porta di casa, seduta e addormentata con sulle spalle quella che avrebbe dovuto essere la mia giacca, lei. La gonna era bagnata fradicia, le mani, rosse e fredde. I miei ultimi passi la svegliarono. Il suo viso era anch’esso rosso, rigato di lacrime.

«Ciao.»

Le passai di fianco a testa bassa, mentre lei si rialzava.

«Senti…»

«Non abbiamo niente da dirci, ok?»

«No. Sentimi, dai! Volevo chiederti scusa per…»

«Per cosa? Per avermi portato, a tradimento, nell’ultimo posto nel quale andrei? O, forse, per avermi fatto stare peggio di un cane? O per cos’altro, eh?»

Le parlai veramente a muso duro, con voce cattiva.

«Volevo scusarmi per tutto! Per tutto quello che posso averti detto o fatto di male!»

Singhiozzava.

«Non avrei mai più pensato di provocare una simile reazione! Scusami, davvero!»

Mi fermai a guardarla, sempre arrabbiato.

«Te lo giuro! Io speravo solo di poterti stare un po’ vicino in un posto, l’unico, dove mi sento in pace con me stessa. Volevo semplicemente provare a renderti un po’ più sereno.»

«Io non ti ho chiesto niente!»

«Lo so! Lo so!»

I singhiozzi aumentavano.

«Sono stata una stupida! Avrei dovuto chiedertelo, prima! O, almeno, dirti dove stavamo andando! Sono subito tornata alla macchina, dopo che te ne eri andato, per venirti a cercare, ma non sono riuscita a trovarti! Volevo solo chiederti di perdonarmi. Niente altro! Solo perdonarmi! Ho girato quasi un’ora, poi sono venuta qui ad aspettarti.»

La vidi barcollare. La afferrai prima che cadesse.

«Non ti senti bene?»

La mia voce si fece un po’ meno dura.

«No! Sto benissimo! Davvero! Mi gira solo un po’ la testa!»

«Ma sei gelata! Vieni in casa un momento.»

«No! Non voglio disturbare! Sto benissimo, ti ho detto!»

Svenne. Aprii il portoncino. La casa era deserta. I miei genitori non sarebbero tornati che per il pranzo. Distesi Mara sul divano del salotto, poi andai a prendere la stufa elettrica che c’era nel ripostiglio. La accesi e la puntai verso di lei, in maniera tale da riscaldarla. La coprii anche con un plaid. Andai in cucina, presi un pentolino e lo riempii di acqua. Lo misi su un fornello acceso e aspettai che l’acqua bollisse. Lasciai la bustina del tè in infusione per un paio di minuti, poi versai il liquido in una tazza e zuccherai bene. Provai a svegliarla, ma non riuscii. Presi dell’aceto, allora, e glielo feci passare sotto il naso. Si riebbe.

«Cosa?»

«Non parlare. Bevi questo.»

Rischiai di farle ustionare la bocca.

«Mmmh! È bollente!»

«Bevi e non fare storie!»

Sorseggiò fino a quando non l’ebbe finito tutto, restando in silenzio, così come feci anche io.

«Grazie! Ma, che ore sono, scusa?»

«Quasi le quattro.»

«Ma? Come mai sono a casa tua?»

«Mi sei svenuta tra le braccia davanti al portone.»

«Ah! Ora ricordo! Ero, cioè, sono qui per chiederti scusa.»

«Lascia perdere. Come ti senti, piuttosto?»

«Bene, direi. A parte il freddo che ho. Ma, come sei conciato? Sei tutto sporco di fango!»

«Sono caduto. Mentre correvo. Il tuo vestito è asciutto?»

«No! La gonna, davanti, è tutta bagnata! »

«Mettiti bene di fronte alla stufa. Si asciugherà in cinque minuti.»

«Ma, è tardissimo! I miei nonni mi uccideranno! Devo andare!»

Fece per alzarsi, ma ricadde pesantemente sul divano.

«Sei… sei ancora arrabbiato con me?»

«Sarà meglio che tu non mi ci faccia pensare!»

«Ah, la risposta è ‘sì’!»

«Te l’ho detto! Lascia perdere! Adesso cerca di fare in modo che la gonna si asciughi velocemente. Già ti presenti a casa in ritardo, figuriamoci, poi, se arrivi conciata così.»

«Già! Hai ragione!»

Mi ero calmato un po’, ma restavo, comunque, ancora più distaccato del solito. Uscimmo di casa mia verso le quattro e mezza. La gonna asciutta, le mani calde e il viso roseo come sempre. Io, dal canto mio, avevo cambiato i vestiti sporchi di fango con altri puliti. Sopra la camicia, la giacca che mi aveva regalato. Salimmo sulla macchina, parcheggiata nel mio cortile. La accompagnai fino a casa dei suoi nonni, così da dimostrare, nel caso fossero stati svegli, che eravamo stati insieme fino ad allora. Tutte le luci erano spente. Lei entrò in casa un po’ più sollevata. Vidi la sua ombra che mi salutava dalla finestra della cucina e mi incamminai verso casa. Rimase un po’ inibita, nei giorni seguenti. Io, dal canto mio, non la cercai. Come, del resto, avevo fatto fino a quel momento. La sua positività mi faceva stare male, mi faceva sentire fuori luogo. Mi sentivo, in un certo qual senso, inferiore a lei. Non so nemmeno io come descrivere le sensazioni che provai in quei primissimi mesi di conoscenza. Ero risentito per la sua vitalità eccessiva, che strideva fortemente con il mio io. Invidiavo, però, quella sua carica, quella sua voglia di vivere. Non l’ho mai ammesso, neppure con me stesso, ma ero veramente invidioso. L’ho capito solo da qualche giorno. Solo rivedendo, come in una serie di flashback, il mio comportamento in certe situazioni. Stavo pensando che, se lei fosse qui, saprebbe esattamente cosa dirmi per cercare di tirarmi su. Anche io, ora, saprei cosa dirle. Già. Solo ora. Arrivo sempre in ritardo, io.

«Ma non sei ancora pronto? Forza!»

«Eh, un attimo! Cos’è, tutta questa premura?»

«È solo che ho prenotato e vorrei arrivare, non dico in orario, ma almeno con un ritardo minimo! Sbrigati, dai!»

Era il mio compleanno. Il mio diciottesimo compleanno. Erano trascorsi quindici giorni da quel nostro violento ‘scambio di opinioni’ e lei era tornata quella di prima.

«Dove andiamo?»

«È una sorpresa. Tranquillo, però! Niente a che vedere con l’ultima che volevo farti! Sono stata troppo male, per quella storia!»

I suoi occhi chiari cercavano il mio sguardo, come sempre. Come sempre, lo abbassavo.

«Anche io, se è solo per questo.»

Restammo per qualche lungo attimo in silenzio.

«Beh, come ci si sente ad essere diventati maggiorenni?»

«Come prima. I compleanni servono solo a farti accorgere che il tempo sta passando, che ti sta scivolando dalle mani, come la vita.»

«Non essere sempre così negativo!»

«Non è una questione di negatività. Io sono estremamente convinto di quello che dico. Il tempo è una cosa assurda. Più passa e più gli episodi del passato ti sembrano recenti. Più passa, peggio stai.»

Cercò di cambiare discorso.

«Com’è andata, oggi?»

«A scuola, intendi? Niente di particolare. Un compito di matematica. Troppo facile per essere vero. Mi sa che c’era il trucco.»

«Ma no! Sei tu che sei bravo! Vedrai che prenderai il massimo!»

I pneumatici chiodati facevano in modo che un forte tremolio si diffondesse nell’abitacolo.

«Ci siamo. Parcheggiamo qui e facciamo quattro passi.»

Arrivammo al ristorante. Il più caro della città.

«Prego, prima il festeggiato!» Ci fecero accomodare ad un tavolo posizionato in un angolo del locale, proprio di fianco ad una colonna. Diedi una rapida occhiata al menu, poi lo riposi sul tavolo.

«Hai già scelto?»

«No. È che non ho molta fame.»

«Eh, no! Mi dispiace, ma devi mangiare! Non accetto scuse!»

«Ma?»

«Niente ‘ma’! Avanti! Scegli!»

Ripresi in mano la carta dei piatti.

«Se proprio devo, prenderò le crespelle ai funghi.»

La posai nuovamente.

«Forse non mi sono spiegata bene! Non basta che tu prenda un primo! Devi festeggiare come si deve! Lascia fare a me!»

«Ma?»

«Oh, ancora con ‘sto ‘ma’? Lascia perdere e dammi retta!»

Arrivò il cameriere per l’ordinazione.

«Dunque: due antipasti misti, una zuppa di asparagi, una porzione di crespelle ai funghi, due porzioni di stinco con patate!»

«E da bere?»

«Acqua. Minerale, grazie!»

«Molto bene.»

Si allontanò.

«Niente vino, stasera. Non vorrei si facesse la fine della discoteca!», disse con aria semiseria. L’antipasto non tardò ad arrivare. A più riprese.

«Dario, senti…»

«Sì…»

«Niente…»

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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