Ancora qualche riga da “Storia di V.”
Rinascita
Passarono due anni abbondanti, prima di avere nuovamente l’occasione. Ero all’università, era inverno. Fuori, qualcosa di molto simile ad una tempesta di neve. Decisi che era ora di dirigermi verso casa, dato che la lezione era saltata a causa dell’impossibilità del docente di arrivare in tempo. Misi giacca, sciarpa e berrettone e mi diressi, una volta uscito dall’università, al parcheggio, dove avevo lasciato la macchina. Era di pochi giorni prima un enorme bollo, che coinvolgeva paraurti e cofano, per cui ero anche andato a sporgere denuncia. Atti vandalici, ovviamente contro ignoti. Sembrava che un elefante si fosse seduto, saltando, sul davanti della macchina.
La neve copriva tutta l’auto ed anche il danno, non senza lasciar intravedere l’avvallamento. Cominciai a togliere la coltre dal parabrezza, poi pulii i finestrini, infine, il vetro posteriore. Salii in macchina, la accesi e cominciai il viaggio di ritorno, una ventina di chilometri che non sapevo quanto sarebbero durati.
Ero appena uscito dalla città, visibilità venti metri scarsi, quando udii un colpo sordo e vidi un’ombra scomparire rapidamente verso destra. Impiegai qualche secondo a reagire, quindi decisi di fermare la macchina su quello che mi sembrava essere uno spiazzo a fianco della carreggiata, per scendere e tornare indietro a vedere cosa fosse successo.
Una trentina di metri prima di dove avevo parcheggiato c’era, oltre il bordo della strada, nel fosso, una persona riversa. I vestiti, quasi interamente bianchi dalla neve. La neve, in parte, rossa per il sangue. I fiochi continuavano imperterriti a cadere ed io mi ero rannicchiato nel fosso, in maniera che dalla strada, se mai fosse passato qualcuno – ero su una viuzza di campagna transitata prevalentemente da trattori, non avrebbe potuto vedermi. Scrollai un po’ la persona, per vedere se fosse in grado di riprendersi, ma non ebbi risposta. Provai a sentire i battiti, tra mento e collo, ma non si percepiva nulla.
Dal naso e dalla bocca, il freddo lo testimoniava, non usciva aria. Attesi qualche minuto, penso cinque al massimo, per vedere se vi fosse un segnale di vita. Dalla ferita sulla testa, abbastanza grande, continuava a fuoriuscire sangue, una buona quantità del quale si era mescolata alla neve. Non seppi resistere. Ne presi una manciata, togliendomi i guanti, e cominciai a sbocconcellarla, con l’illusione di avere davanti una granita di sangue. Seguirono altre due, tre, quattro manciate: ripulii quasi completamente la neve intorno al malcapitato, mentre quella che cadeva stava facendo il resto.
Mi rialzai, coperto di neve com’ero, lasciando il malcapitato nella posizione nella quale l’avevo trovato. L’emorragia sembrava essersi fermata. Mi girai verso la mia macchina e me ne andai. Senza chiamare i soccorsi. Senza preoccuparmi se fosse vivo o, come pensavo, morto.
Impiegai altri quaranta minuti ad arrivare a casa, senza un minimo di rimorso per quello che avevo fatto. In fondo, l’altro se l’era cercata, ma questo… Niente. Non mi colpì neppure la notizia, su un giornale locale, del ritrovamento di un barbone, ai bordi della strada consortile, quasi congelato ed in coma a seguito, probabilmente, dell’urto da parte di un’auto.
Seguii distrattamente la vicenda, che si concluse con una settimana di coma e la morte del poveraccio, con il trafiletto che si concludeva constatando come, se i soccorsi fossero arrivati prima, probabilmente lo si sarebbe potuto salvare.
Quello fu l’unico caso nel quale approfittai di una situazione e non mi procurai il sangue seguendo un piano o scegliendo la vittima. Ebbi, infatti, a seguito di quell’avvenimento, un lungo periodo nel quale, pur vivendo serenamente, mi dicevo che ero un assassino – due morti sulla coscienza – e che non dovevo più dar retta all’istinto, alla fame, alla sete. Dall’altra parte mi rispondevo che, se errore avevo commesso, era stato quello di non aver assecondato ancora di più i miei gusti in termini di cibo, magari unendo l’utile al dilettevole ed eliminando persone indegne di vivere.
Stava lentamente innescandosi, in me, la volontà di andare oltre. Oltre le convenzioni comuni, che vedono chi si nutre con il sangue come demone o espressione di un male che qualcuno aveva definito in quei termini, oppure chi uccide, sempre e solo come assassino, oppure ancora che vive una doppia vita sempre e solo come un bugiardo ed un manigoldo.
Volevo, insomma, essere semplicemente me stesso, alla faccia dei cliché.
Fu allora che maturò il mio piano, il mio nuovo modo di vivere. Fu allora che, sicuro di essere arrivato sulla Terra con un ben preciso scopo, decisi di assecondarmi, ma facendo il bene di tanti altri. Bambini, in primo luogo. Ma anche donne. O uomini troppo deboli per potersi difendere da soli. Di tutti quelli che, in un modo o nell’altro, avessero dovuto subire violenze o angherie da parte di qualcun altro, uomo o donna che fosse.
Fu allora che, dopo un lungo parto, rinacqui.
© Roberto Grenna – Riproduzione vietata