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Si avvicinò lentamente.
«Ciao.»
Mara non rispose.
«Allora? Non mi saluti più? Hai pensato a quello che ti ho chiesto stamattina?»
«Sì. Ci ha pensato.»
«E tu chi sei? Non mi pare di conoscerti. E poi, io stavo parlando con lei!»
«Io, invece ti conosco un po’, abbastanza da considerarti un poco di buono!»
«Senti, ragazzino, non ti mettere in mezzo, va bene? Devo chiarire una cosa con Mara e non ho bisogno di scocciatori!»
La prese per il braccio sinistro. Gli diedi uno spintone che lo fece cadere a terra. Si rialzò con uno scatto di nervi e si avvicinò minaccioso con i pugni alzati. Feci scansare Mara e indietreggiai fino al muro. Il suo destro partì proprio mentre io mi abbassavo. Dopo l’urto, si inginocchiò a terra, gridando di dolore, mentre io mi avvicinavo a lei. Rideva, di gusto. Doveva essere sembrata una scena come quelle dei film, con il gradasso della situazione che si fa male da solo nel tentativo di picchiare un malcapitato. Era riuscito nella non facile impresa di fratturarsi quattro dita.
«Scommettiamo che adesso ti lascerà in pace?»
«Credo proprio di sì! Grazie! Sei stato molto coraggioso ad affrontarlo a viso aperto per difendermi! Ma come hai fatto a non farti colpire?»
«Fortuna. Solo fortuna!»
Sicuramente avevo imparato qualcosa, da quella scazzottata di Firenze. Nei giorni successivi, come mi raccontò a più riprese, aveva tentato di riavvicinarsi al gruppo, ma dopo il racconto di ciò che era accaduto, tutti si erano mostrati d’accordo nel voler tagliare i ponti con quell’individuo. È incredibile: guardandomi indietro scopro una serie di incongruenze comportamentali che mi fanno sentire ancora peggio. Sono proprio quelle incoerenze a darmi la misura della mia doppiezza, della mia spietata cattiveria. In quell’occasione mi ero comportato con Mara come un bambino avrebbe fatto con un giocattolo sul quale mette gli occhi un compagno di giochi. Credo di capire, ora, che ciò che mi fece muovere fu la possessività, la voglia di averla solo per me. A livello fisico, intendo. Credo che dei suoi sentimenti mi sia sempre importato poco, anche se, a volte, un briciolo di coscienza mi portava a provare tenerezza nei suoi confronti. Nei confronti di colei che mi affidava tutto ciò che aveva, che mi considerava, ora lo so, come punto di riferimento unico. Potrebbe quasi sembrare morboso, il suo attaccamento nei miei confronti. Anche io, fino a qualche tempo fa, lo consideravo così. Adesso non più. Adesso ho capito! Gli avvenimenti che avevano segnato la sua vita, l’avevano restituita apparentemente uguale a prima, come lei stessa andava dicendo.
«Sai, non sono assolutamente cambiata, dopo l’incidente. Sono rimasta la stessa persona di prima. Davvero!»
No. Non era per niente vero. Il cambiamento, e grosso, era avvenuto dentro di lei, nella sua testa. Soprattutto, nel suo cuore. Aveva sempre puntato tutto sulla sua famiglia e la morte dei suoi genitori l’aveva privata di un punto di riferimento fondamentale, insostituibile. Neppure l’amore dei suoi nonni, che l’adoravano, era stato in grado di colmare quel buco, meglio, quella voragine, che la consumava da dentro. Per colmo di sfortuna, aveva trovato in me ciò che le mancava. Sto molto male, ora. Ora che mi sono accorto della mia stupidità, della mia incapacità di analizzare le situazioni, le parole, i comportamenti. Ora che, ancora una volta colpevolmente, non posso più fare nulla. Mi vengono in mente i preparativi per le vacanze di Capodanno, proprio pochi mesi dopo l’episodio dell’università.
© Roberto Grenna – Riproduzione vietata