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Ed ecco cosa accadde nel secondo giorno di vita del neonato villaggio. Buona lettura!

N.B.: questa storia è stata scritta molto tempo prima rispetto a questa emergenza sanitaria. Perdonate i riferimenti che qualcuno possa ritenere inopportuni.

Giorno 2.

Le attività cominciarono presto, quel mattino, perché c’era da cominciare la costruzione di altre tre case. Gli uomini si dedicarono alla ricerca dei materiali, tagliando alberi robusti per ottenerne il legno da utilizzare per le fondamenta e le pareti, mentre le donne andarono al fiume, in prossimità delle grotte che si celavano dietro la cascata, per lavare le stoviglie e i panni, proprio come si dovrebbe fare in una comunità civile.

Mentre Ugola dirigeva i lavori che Gracile e Creola provvedevano a svolgere – insomma, lei apparteneva all’aristocrazia, aveva cantato nei teatri più importanti d’Europa e mica poteva abbassarsi a svolgere quei compiti così umilianti! –, da dietro la cascata si sentì una specie di lamento: «Signore! Signooooreee!».

Le donne, insospettite, abbandonarono momentaneamente le attività che stavano svolgendo (rispettivamente, comandare e lavorare) per appropinquarsi al muro d’acqua che scendeva impetuoso e copriva un ingresso tanto ampio quanto buio. Ugola, come sempre, schioppo in spalla: «Altolà, chi va là, parola d’ordine!».

Si vedeva chiaramente che, su un lato della cascata, c’era tra l’acqua e la roccia un passaggio, abbastanza ampio da consentire il passaggio a… una nana! Un’altra! Insomma, stava diventando una convention di nani! E per fortuna che avevano scelto quel posto perché era tranquillo e silenzioso! E, come se non bastasse, dietro alla signora, già di una certa età, che piangeva lacrime di sangue per l’emozione, si fece notare un’altra ombra, quella di un ragazzo giovane, anche lui di proporzioni ridotte, che pareva non stare proprio benissimo.

«Allora? Vi ho chiesto “chi va là”! Rispondete o devo sparare?», incalzò Ugola.

«Non spari, siamo due poveri derelitti che vivono in questa grotta ormai da anni, perché cacciati dal proprio villaggio a causa delle nostre patologie. Hanno avuto paura di noi per via delle nostre diversità, ma noi siamo proprio come tutti gli altri!», perorò con convinzione la donna.

«E come vi chiamate?», domandò sospettosa, facendo un passo indietro già alla parola “patologie”.

«Io sono Ebola e questo è mio figlio Embolo! Siamo soli da quando mio marito, che era una gran brava persona, ma che fin da giovane soffriva di asma, un giorno ci ha abbandonati dopo una crisi di tosse. Si chiamava Rantolo e ci ha lasciati ormai da dieci anni.», disse, continuando a lacrimare sangue.

“Ma ‘sti cazzi, che sfiga, questi! Speriamo non si fermino con noi!”, pensò tra sé e sé Ugola, mentre le sue due compagne si avvicinavano ai nuovi arrivati per portare loro un po’ di conforto umano.

Terminate le operazioni di lavaggio, rientrarono nello spiazzo dov’era appena stata eretta la prima casa e in prossimità del quale sarebbero nate le altre, presentando Ebola ed Embolo agli uomini, che stavano lavorando alacremente per cercare di avere almeno il perimetro di una nuova abitazione tracciato entro sera.

«Dove c’è posto per quattro case, c’è posto per cinque!», esclamò durante il pranzo Foscolo, di fatto aprendo alla permanenza dei due nuovi arrivati.

L’occhiataccia che gli lanciò Ugola non lo sfiorò nemmeno, così che proseguì: «Benvenuti nella nostra piccola comunità!». Si beccò un calcio sulla tibia destra.

Durante il pomeriggio, Embolo ebbe una crisi, Ebola continuò a sanguinare, Ugola si tenne distante da quei due, che riteneva menagrami, Gracile si occupò delle pulizie nella casa e Creola si recò in una parte della foresta che non avevano ancora visitato per recuperare vegetali per la cena.

Fu proprio lì che, alzando gli occhi sulle punte più alte delle piante che si trovavano intorno, che intravide un uomo, pressappoco alto come lei, che si muoveva da un ramo all’altro. Tra i rami, le sembrò di vedere addirittura una piccola abitazione.

Stupita, cercò di mettersi in comunicazione con quell’agile esemplare di nano, che sembrava ricambiare le attenzioni della ragazza, fissandola con sguardo curioso: «Ciao! Chi sei? Cosa fai su quell’albero?»

«Ci vivo, su quest’albero, dopo l’alluvione che mi ha portato via la casa qualche mese fa! Mi chiamo Arboricolo. E tu?»

«Creola. Sto costruendo una casa con il mio uomo a qualche centinaio di metri da qui. In realtà, stiamo costruendo praticamente un piccolo borgo. Perché non ti unisci a noi?».

L’uomo stette per un po’ in silenzio, come se fosse indeciso sul da farsi.

Poi, lentamente, cominciò a scendere, ramo dopo ramo, dalla pianta, non senza essere prima entrato in quella specie di capanna a recuperare un fagotto.

«So di un altro come noi che, in questa zona. Ha una piccola coltivazione poco più a sud. Possiamo passare a chiamarlo? Non è bello vivere in queste zone da soli!».

Creola non ebbe nulla da eccepire e seguì la sua nuova conoscenza per qualche centinaio di metri. Giunsero in prossimità di alcuni piccoli campi coltivati, dove una piccola figura era ricurva, nell’intento di raccogliere qualcosa.

Arboricolo fece un prolungato fischio, seguito da uno più breve. La figura si sollevò, girandosi nella loro direzione.

«Sono venuto a dirti che questa ragazza e altri nani stanno costruendo un borgo, un po’ più a nord. Io credo di andare a vedere se ci sia posto anche per me, perché sono stanco di abitare sulle piante. Ho pensato anche a te. Cosa ne pensi?».

Lo sguardo arguto del contadino scrutò i visi dei suoi interlocutori. Poi, porse la mano alla ragazza, con l’intento di un baciamano di presentazione: «Mi chiamo Agricolo. Quale grazioso nome ha questa bella ragazza?».

«Mi chiamo Creola. Sono scappata da un paese lontano con il mio compagno Creolo e ho incontrato ieri altri nani che stanno costruendo delle abitazioni laggiù.», disse, indicando la direzione dalla quale era arrivata.

Inutile dire che, al campo, arrivarono in tre, per la gioia di Ugola, che, da donna di classe quale era – aperta a ogni novità –, si abbandonò a un «Ma vaffanculo, va! Ogni volta che uno si muove di cento metri, trova qualche scappato di casa che si aggrega!», avendo l’accortezza di non farsi sentire dai suoi interlocutori.

Mentre il sole tramontava, di fronte alla solita zuppa, più ricca grazie alle verdure fornite da Agricolo, vi fu l’ennesima opera di reciproca conoscenza. In due giorni, la popolazione era passata da due a dieci unità.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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