Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!
Sebbene aventi un significato molto diverso da quello che io attribuisco loro, le parole di “Non è tempo per noi” rispecchiano ciò che io sono. O forse ciò che sarei stato se avessi capito per tempo i miei errori. Affogare i propri pensieri in quella canzone. Dio, che sollievo. Ascoltarla anche venti volte di fila, ripetendomi ogni volta che non ero io a sbagliare, ma il mondo intorno a me, quelli che mi circondavano, che mi contrastavano, che, a mio modo di vedere, mi odiavano. Quasi quindici anni dopo i tempi di quei primi ricordi avevo trovato il mio inno, la mia bandiera. Rivedere davanti ai propri occhi tanti episodi della propria vita tutti insieme può avere un effetto devastante. Devastante al punto che i ricordi sono la peggiore droga alla quale una persona possa assuefarsi, dalla quale una persona possa dipendere. Morire dentro ricordando i bei momenti con una persona che ormai non c’è più. Morire dentro ricordando i torti, rendendosi conto che erano fatti e non subiti. Morire dentro per non avere il coraggio di guardare avanti. Quando sei preso dai pensieri lo spazio e il tempo non esistono più, non hanno più significato. Ti avvolgi di profumi che non sentirai più, ascolti voci che ti hanno accompagnato negli anni più belli, rivedi i volti che solo le foto, oltre alla mente, possono tramandare. La vita si sospende, la ripercorri tutta attraverso gli episodi, reinterpreti i comportamenti, ripensi alle carognate fatte, ti penti, ti deprimi. Senti che chi non c’è più ti guarda con l’occhio di chi sa che tu hai sbagliato, senti che chi ti circonda cova rancore nei tuoi confronti, senti che la parte di te più nascosta ti divora da dentro. I più la chiamano rimorso, ma secondo me è semplicemente una reazione chimica guidata dalla depressione. Il risultato, che sia l’una o l’altra cosa, non cambia. Quante notti ho perso correndo dietro ad un ricordo, quante volte non ho dormito sentendo voci di condanna nella mia testa. Giorno dopo giorno, attimo dopo attimo, una sola idea vi si è fatta sempre più largo, una sola decisione avrei potuto prendere. La mente va, segue un pensiero che vorrei aver rimosso, mi riporta ad un’estate lontana, ma mai troppo. Mi riappare davanti il fiume, mentre sul ponte due biciclette viaggiano lentamente. Io ed Elena, amici da sempre, complici in tutte le cose, una specie di piccola associazione a delinquere. Lei copriva me, io coprivo lei, dietro l’innocenza e la furbizia dei quindici anni. Sempre in giro, sempre insieme, anche a scuola. Le voci su di noi erano sempre le stesse: «Guardali lì, i fidanzatini…» «Complimenti! Siete proprio una bella coppia!»
E lei che si arrabbiava in un modo assurdo e cominciava a spintonare il malcapitato o la malcapitata che aveva pronunciato l’incauta frase. Tanto pepe non l’ho mai incontrato in nessuna se non in lei. Anche a scuola era la più energica, la trascinatrice. Studiavamo sempre insieme: matematica, italiano, latino. Ogni scusa era buona per passare del tempo insieme. I risultati, comunque, si vedevano. Ci contendevamo sempre la palma del migliore, senza mai farci prendere dall’invidia, dalla voglia di superarci l’un l’altra a tutti i costi. Il primo giorno al liceo fu spassosissimo. Come al solito arrivammo insieme e in ritardo (riuscivamo ad essere d’accordo anche su quello), in tempo comunque per non farci prendere subito a malvolere. Mancavano due minuti, forse meno al suono della campanella. Due banchi liberi: uno in prima fila, a destra rispetto alla cattedra, uno in terza fila, l’ultima, a sinistra rispetto al punto di vista dei professori.
«Scusami… potresti spostarti?»
Da dietro due lenti spesse gli occhi di una ragazza piuttosto ben messa ci fissavano.
«Non ci penso nemmeno… chi prima arriva meglio alloggia!»
Elena sorrise. «Forse non mi sono spiegata bene: io e Dario vogliamo stare seduti vicini. È dalle elementari che sediamo fianco a fianco e non intendiamo interrompere questa tradizione.»
«Ma senti questa!», fece la tipa rivolta alla sua compagna di banco. Non ebbe tempo di dire altro, se non «Ahia!» L’aveva presa per un orecchio con la mano destra, mentre con la sinistra le prese il quaderno e la penna che erano sul banco.
«Non mi sono spiegata bene! Visto che le domande cortesi non servono, provvederò con metodi meno gentili!» Io me la ridevo, in piedi dietro di lei. Il resto della classe osservava la scena con stupore. Non appena la ragazza (scoprimmo in un secondo tempo che il suo nome era Simona), con la coda tra le gambe, si accomodò in terza fila, tutti applaudirono fragorosamente.
«Grazie, grazie!», disse con un sorriso malizioso sulle labbra. Furono subito tutti conquistati, i ragazzi almeno, dal suo nerbo, dalla sua decisione.
«Visto che con le buone maniere si ottiene tutto?», mi disse. Io scoppiai a ridere proprio sul suono della campanella.
«Ci facciamo subito conoscere!», le dissi strizzando l’occhio. Lei annuì, dandomi un buffetto sulla spalla. È incredibile. Ogni tanto riesco ancora e sorridere. Ricordo ancora il nostro primo incontro. Eravamo in dodici nella piccola aula destinata alla prima classe, cinque maschi e sette femmine. Fatte le coppie (maschio con maschio, femmina con femmina) restavamo solo più noi due da sistemare.
«Dario ed Elena: vi sistemerete qui, davanti a me.», disse la maestra. Mi andai a sedere tra le risatine ironiche dei miei compagni maschi.
«Vedrai come ti concia, quella!»
Io ancora non la conoscevo. Ci eravamo trasferiti da poco e ancora non avevo avuto modo di farmi molti amici, nel nuovo paese. Mi ci volle un buon quarto d’ora per decidermi a parlarle e a presentarmi. Ricordo che esordii con un «Io sono nuovo di qui…» e ricordo anche che la sua risposta fu un sorriso. Forse perché ero impacciato. Forse perché, come mi dissero dopo, ero arrossito. Quel sorriso lo portai a casa con me e ancora oggi lo conservo tra i miei ricordi più preziosi, tra i pensieri che restano e resteranno indelebili in me. Sin dal primo anno riuscimmo a sfuggire a tutte le tipiche scaramucce tra bambini e bambine che nascono in una qualsiasi classe delle elementari. Formavamo una classe per conto nostro, con la stessa maestra, è vero, ma con pochi coinvolgimenti nelle altrui questioni. Ci ritrovavamo a giocare tutti insieme, per quel che potevamo, ma dopo nemmeno dieci minuti si formavano almeno quattro gruppetti. Lei e io prendevamo le nostre biciclette e ce ne andavamo.
© Roberto Grenna – Riproduzione vietata