Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!
«Devo riuscire a far smettere di fumare mio padre!»
Le sue parole mi risuonano nella testa da quando ho messo in bocca la prima sigaretta, in quell’estate di sei anni fa. Tornavo dal cimitero. In un attimo mi ritrovai dentro il negozio di Carlo, il tabacchino.
«Un pacchetto di Marlboro.»
Così ho iniziato, per volermi fare del male, non per farmi vedere, né perché lo facevano gli altri. Solo per farmi del male. Aspettavo che i miei uscissero per attaccarmi alle bottiglie di whisky o di gin, per annegare in qualcosa che non fosse acqua. L’acqua. L’acqua placida, d’estate. L’acqua limacciosa che gonfia il fiume quando piove. L’acqua che uccide. Anche chi non muore.
«Guarda là! Un pesce morto, a galla!»
Già, l’acqua uccide anche chi da lei trae vita. Eravamo a pesca e non potemmo fare a meno di notare un grosso cavedano morto vicino ai nostri galleggianti. Due canne di bambù, una lenza da pesca d’altura, un tappo di sughero e cinque piombi sopra un amo numero quattro. Nel barattolo di latta appoggiato su un grosso sasso, i lombrichi. L’orto di Elena sembrava un allevamento di lombrichi, ai nostri occhi. Bastava decidere di andare a pesca, armarsi di una paletta da spiaggia e scavare. In meno di dieci minuti trovavamo vermi per una battuta lunga una giornata. Il vecchio Gino, consegnandoci le canne, ci aveva insegnato anche come innestarli sull’amo e come sostituire le montature in caso di incidente. Ci era bastato dirgli «Ci piacerebbe tanto venire a pescare con te!», un pomeriggio nel quale l’incontrammo al ponte del vecchio guado, per convincerlo a regalarci quelle due ingombranti, è vero, ma per noi bellissime canne da pesca. Ce le diede sorridendo il giorno dopo, quando arrivammo per la nostra solita passeggiata in bici. Era seduto per terra, uno straccio a proteggere i pantaloni dalla polvere. Strano, quel ponte. Fatto di cemento e legno, con dei grossi tubi per far passare l’acqua, affiorava per poco più di mezzo metro.
«Ciao, Gino!»
Al nostro coro rispose col solito sorriso. Non fece a tempo a distrarsi che il suo galleggiante sparì sotto il pelo dell’acqua. Una ferrata sicura e una tinca di più di un chilo cominciò la sua lotta. Io mi gettai sul guadino, togliendomi le scarpe senza nemmeno slacciarle, Elena, alle mie spalle, lo incitava. Il grosso pesce veniva avvicinato sempre di più alla sponda artificiale formata dal ponte. La rete, nell’acqua, aspettava la preda. La tirai su, ma poco mancò che finissi nell’acqua con tanto di guadino e tinca.
«Bravi! Ce l’avete fatta! Bravi»
La voce di Elena si perdeva tra le piante.
«Bravo, Dario! L’hai guadinata come un vero maestro!»
Ero già felice così, immaginarsi dopo! Una volta slamato il pesce, infatti, Gino ci consegnò ciò che aveva preparato la sera precedente. Due canne uguali, bellissime, di un bambù ancora verde emanante un profumo dolciastro, delizioso da annusare.
«Dovete promettermi, però, che rispetterete sempre il fiume e tutti i pesci che lo abitano. Pescare vuole anche e soprattutto dire amare la natura.»
Senza essere mai stati pescatori, avevamo sempre portato il massimo rispetto per quello che sembrava un fratello più grande. Non ci fu difficile, così, impegnarci. Passammo l’intero pomeriggio ad imparare, rapiti dai gesti lenti e ponderati del nostro maestro. Inutile dire che per quel giorno non pescammo nulla, ma partecipammo lo stesso al rituale che Gino faceva dopo ogni battuta di pesca, prima di rincasare.
«Elena, vieni qui. Voglio che sia tu a ridare la libertà ai pesci che abbiamo preso. Anche questo è rispetto per la vita. Ricordatevi di farlo ogni volta che verrete, prima di andarvene.»
Ci accompagnò fino in paese, con la sua vecchia Graziella. Povero Gino. Mia madre, una mattina d’aprile, venne a svegliarmi agitatissima.
«Dario, sveglia! Sai cosa è successo?»
L’avevano trovato riverso in un fosso, con la sua bicicletta. Ad un metro, anche meno, la sua borsa e quella canna di bambù che tante volte avevo visto piegarsi sotto il peso di qualche grosso pesce. Era lì da due giorni. Un maledetto pirata della strada lo aveva ucciso mentre rincasava. Piangemmo insieme, sull’altare, io dalle ampolline, Elena dai campanelli. L’avevano ucciso mentre tornava dopo aver fatto la cosa che più amava. Conoscevo già la morte, ma quella volta capii quanto terribile essa possa essere, quanto male possa fare. Fu solo la prima volta, purtroppo. La testa mi fa male, il pacchetto è quasi vuoto. Poco importa, tanto ho finito il gas nell’accendino. Dovrei uscire a comprarne uno, ma forse ho ancora qualche cerino nel cassetto. Non ho voglia di uscire al sole, di sentire il calore sulla pelle, quel calore così diverso dal gelo che porto dentro. I miei sono andati via e non torneranno prima di una decina di giorni. Ho tutto il tempo, ma ci sono momenti nei quali mi auguro che tornino prima del previsto, aprendo la porta silenziosamente e gridando «Sorpresa!» come quando ero bambino. I genitori vivono per i figli, cercano di dare loro il meglio, si specchiano nei loro occhi, spesso si accollano i loro problemi. Non si meritano certe cose. Proprio no. Sento che la cosa che mi morde dentro sta crescendo, si sta nutrendo della mia paura, mi sta bucando là dove tutti hanno il cuore, dove anche io l’ho avuto. Non mi importa di sembrare, o di essere, pazzo. Vorrei soltanto liberarmi da una serie di pesi che ho accumulato nel corso degli anni. Vorrei solo che la mia esperienza servisse ad uccidere la cosa che è in me e, ne sono convinto, in migliaia di altre persone. Fino a qualche anno fa sapevo con chi sfogarmi, ma non avevo quasi preoccupazioni, non avevo motivi per lamentarmi. Avrei bisogno di lei, ora.
«Elena, ho un problema!»
«Beh? Cosa stai aspettando? Parliamone!»
Sempre un sorriso. Sempre la solita, stupenda, disponibilità.
«Dario, senti, dovrei chiederti un consiglio.»
Poche volte l’ho sentita pronunciare quella frase. Troppo discreta, forse anche troppo orgogliosa per chiedere. Non per confidarsi. Per chiedere. Io sapevo praticamente tutto di lei, lei altrettanto di me. I piccoli segreti, quelli che ognuno di noi ha, venivano fuori soltanto così, con una richiesta d’aiuto, di un consiglio. Era l’unico modo che avevamo per vincere le nostre piccole vergogne. Per chi lo vive da fuori, un rapporto simile può sembrare finto, di plastica. No. Non eravamo marionette mosse da un abile burattinaio che può far credere che in un pezzo di legno ci sia la vita. Eravamo schietti, sinceri. Troppo. A volte troppo tardi. In un certo qual senso sono stato sincero anche dopo. In un modo sicuramente diverso rispetto a quell’età indimenticabile. Gli anni più vicini, purtroppo, coprono i bei ricordi. Non hanno colori, i suoni sono metallici, sgradevoli da sentire. Davanti ai miei occhi ho una sua immagine sorridente. I capelli al vento, bagnati, l’ombra delle fronde sopra alla sua testa. Lei seduta, io sdraiato sulla stuoia che da qualche tempo ci portavamo al fiume.
© Roberto Grenna – Riproduzione vietata