Posted on

Un secondo, breve, assaggio di questa storia nera. In attesa che l’ispirazione torni a farmi visita…

Prima volta

La prima volta che ho assaggiato sangue umano? Sangue umano non mio? La ricordo come se fosse successo ieri. Avevo quindici anni e una fidanzatina, di un anno più giovane di me, con la quale si era deciso di andare fino in fondo.

Era estate da pochi giorni, le scuole erano appena finite, noi eravamo liberi di fare quel che le campagne intorno ci consentivano di fare. Poco o niente, per la precisione. Avevo adocchiato un capanno per gli attrezzi, al limite di una proprietà che mi sembrava abbandonata, in riva al fiume Bormida – vivevamo in un paesino tra Alessandria ed Acqui Terme –, e ne avevo parlato con lei. Non ci volle molto. Scavalcammo la recinzione e ci avviammo, tra l’erba alta, non curata, verso la porta in legno, una volta chiusa da un robusto lucchetto, ormai lontano ricordo del tempo in cui custodiva costosi attrezzi.

Ci tenevamo per mano, una coperta nello zainetto, la voglia di crescere e di assaggiare ciò che fino a quel momento era stato solo nei nostri pensieri più perversi. Per lo meno, nei miei.

Fu un pomeriggio lungo, culminato con la reciproca perdita di verginità. E sangue. Tanto sangue, così mi sembrò, che colava tra le sue gambe. Non ci pensai neppure. La baciavo, mano a mano che con le labbra scendevo lungo il suo corpo e lei gemeva, più per il dolore di quel dono che mi aveva fatto che per il piacere che speravo di averle provocato.

E arrivai là, tra le sue gambe divaricate. Non si accorse di ciò che feci. Forse per l’attenzione distratta che usai, forse perché tenne per tutto il tempo gli occhi chiusi. Fu qualcosa di inebriante. Niente a che vedere con il sangue rosso chiaro che bevevo quando mi facevo gesti di autolesionismo. No. Questo era scuro, grumoso. A dir poco, delizioso.

Uscimmo mano nella mano, come eravamo entrati. So che si è sposata con un bravo Cristo, ha tre figli ed è un fiore. Sono contento per lei. Se lo merita.

Quella fu la mia, doppia, prima volta. Quasi trent’anni fa. Una vita. Una vita nella quale non mi sono fatto mancare nulla. Né socialmente, né a livello ludico. Soprattutto, non ho mancato nemmeno un gruppo sanguigno, se mi si passa la battuta…

Quella volta della prima volta fu anche la prima nella quale, mi si scusi per le ripetizioni, pur nella furtività dell’atto, mi sentii profondamente appagato. Come si direbbe dopo un pasto, sazio. Fu allora che compresi la mia strada, o per lo meno la mia dieta. Fu allora, insomma, che capii di essere ciò che sono. Un vampiro.

Per certa parte della mia vita, più o meno da allora, ho poi seguito la nera con interesse, perché ritengo che leggere delle aberrazioni umane aiuti a capire meglio le bestie con le quali si ha a che fare ogni singolo giorno. Mi sono sempre immaginato le scene più cruente, le dinamiche dei delitti, i dialoghi tra vittima e carnefice, i gesti, talvolta concitati, altre volte lenti e studiati. I pensieri di chi stava per morire. Quelli di chi stava decidendo, arbitrariamente, che il tempo dell’altra persona era finito.

E mi piaceva. Mi piaceva molto. Al punto di desiderare di voler essere testimone di un crimine cruento, per togliermi qualche curiosità. Per effettuare, diciamola così, uno studio di natura sociologica. Magari, quando nessuno avrebbe potuto vedermi, bere quel sangue che, altrimenti, sarebbe andato sprecato.

Non solo la nera, comunque. Dai fatti di cronaca sono passato in breve ai libri di esoterismo, passando dai testi del culto di Wicca ai libri sconsacrati delle messe nere, divorando anche tutta quella letteratura che ne narrasse. Fu in quel periodo che ebbi modo di leggere Le Miracle de Théophile e che cominciai a interrogarmi sulla pratica del patto col diavolo. Lessi decine di libri, cercando informazioni su come realizzarlo in autonomia, tra pentacoli e sacrifici di animali (anche umani, in alcuni casi), perché ritenevo impossibile la via del “tramite”, del negromante, come per Teofilo.

Poi, un colpo di fortuna. Su un quotidiano, in bella mostra, la pubblicità di un medium, di uno che poteva “mettere in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti” – così era scritto – e che aveva altri innumerevoli “poteri”. Non ci pensai neppure un secondo e lo chiamai. Mi diede appuntamento per la settimana dopo. Dopo un inizio di conversazione generale sul soprannaturale, gli domandai se fosse in grado di farmi stringere un patto con il Diavolo. Si prese una lunga pausa, poi disse una frase che non dimenticherò mai: «E sia!».

Svolgemmo il rito in una notte di plenilunio, in un bosco poco fuori dal paese, dove si trovava un vecchio casolare abbandonato. Mi fece bere una mistura schifosa – amara e salata al contempo – e procedette con le formule propiziatorie. Ricordo come fosse ore il cambio del suo tono di voce, lo sguardo annullato come se fosse cieco e la prima frase che disse: «Io sono Samael, l’angelo della morte. Chi osa invocarmi?».

Gli raccontai che volevo garantirmi fama e successo, che volevo diventare qualcuno e che avevo bisogno dell’aiuto soprannaturale per poter arrivare ai miei obiettivi. Samael mi chiese cosa volevo dare in cambio, io risposi che gli avrei dato ciò che lui avrebbe voluto. Mi disse che la mia anima non gli bastava e che avrei dovuto garantirgli l’anima e il sangue di almeno altre cento persone malvagie. All’anima avrebbe pensato lui, del sangue mi sarei dovuto occupare io. Bevendolo a ciascuna di quelle cento persone, avrei liberato la mia anima dal patto. Sorrisi. Mi domandò perché io sorridessi. Gli risposi, incosciente com’ero, che non avrebbe potuto farmi un regalo più grande.

Samael, per mezzo del medium, mi disse che se avessi fallito il mio incarico, sarei bruciato nel peggiore dei gironi infernali, con le carni dilaniate da Cerbero e gli occhi cavati da uccelli rapaci, quindi mi chiese se fossi ancora interessato alla cosa. Alla mia risposta positiva, mi si avvicinò e mi scalfì con un’unghia il polso sinistro, facendone scaturire sangue. Ne bevve una goccia, sempre usando il medium come tramite, poi lasciò il suo corpo, facendolo crollare a terra come un sacco vuoto.

Mi avvicinai a lui e lo feci riprendere. Disse di non ricordare nulla, ma era visibilmente sconvolto, la fronte imperlata di sudore, le mani tremanti. Non volle nemmeno essere pagato e giurò che mai più avrebbe fatto una cosa del genere. Io, quel giorno, ebbi l’imprimatur per la mia nuova vita.

Da lì in avanti, ho sempre seguito morbosamente ogni singolo caso di morte in circostanze strane e misteriose, immaginando cosa potesse passare nella testa del killer durante le indagini, oppure quando il cerchio stava stringendosi intorno a lui. Oppure, ancora, quando sapeva di averla fatta franca.

Una sola cosa non ho mai tollerato. E sulla quale non ho mai avuto fantasie. I crimini riguardanti la sfera sessuale, le violenze, soprattutto sui minori. Solo le bestie possono fare certe cose. Solo chi non ha una morale e una dignità. E, in un certo senso, so di aver contribuito a far capire a qualcuno di questi quanto faccia schifo.

Pervertiti. Schifosi pervertiti. Indegni di vivere. Come lui.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *