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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

Riprendemmo a pescare come solo mezz’ora prima stavamo facendo. Da allora, però, avremmo avuto un legame in più. Sentivo che solo le cose che facevamo insieme erano veramente importanti, che il resto contava poco o nulla. Questa consapevolezza cresceva in me ogni giorno di più e, pian piano, mi portava davanti ad una realtà nuova, ad una realtà che sostituiva l’innocenza con la morbosità, con la voglia e la necessità di qualcosa di diverso. A undici, dodici anni è difficile, per non dire impossibile, comprendere certe cose, certi pensieri “strani”, certi slanci così diversi da quelli avuti fino al giorno prima. La scuola media segnò questa crescita improvvisa di un interesse nuovo. Lentamente cambiò la luce che la circondava. Lentamente, ma timidamente, mi accorsi che qualcosa in me non andava come avrebbe dovuto, come avrei voluto. Cominciavo a sentirmi prigioniero di sensazioni che mi portavano a comportarmi in un modo diverso, che sfuggiva dalla mia volontà. A distanza di anni posso apprezzare tutto, posso comprendere fino in fondo il mio mutamento, psicologico prima che fisico. Fu molto più palese il secondo, anche grazie alla mia naturale timidezza. Proprio quella che mi aveva fatto arrossire il primo giorno alle elementari. Proprio quella che mi aveva portato una vampata di calore in tutto il corpo quel Natale del topolino. Crescere, molte volte, vuole dire soffrire. Anche quando si ha tutto. Anche quando la realizzazione dei propri desideri sarebbe lì a portata di mano. Fa molto caldo. Il sole è alto e l’unica piccola nube presente sta in un angolino, per non disturbare. Proprio come facevo io allora, piccola nube in un cielo invaso da un sole immenso, caldo, radioso. Dal sole viene la vita. Senza il sole la vita non c’è. È buffo. Ho sempre odiato chi parlava per frasi fatte, palesi, smielate fino al risibile e ora… ora le uso io, forse perché mi odio terribilmente, forse perché esse nascondono una verità molto più profonda di quanta ne lascino intravedere. Ho bisogno di dire delle verità, anche se so che la verità è quanto di più relativo e astratto esista. Vedere il mondo come lo vedo io ora porta ad avvicinarsi molto alla verità. Oppure alla follia più pura. Ho riletto le ultime righe. Sto degenerando a vista d’occhio e molte sono ancora le cose che ho da dire, i ricordi, gli errori che ho da raccontare. Forse una buona birra mi aiuterà a ‘raffreddarmi’, a riordinare le idee. Già, la birra. Mia madre era andata in città con Paola. Elena e io, soli, a casa mia. Nel frigo, nel cassetto in fondo, per la precisione, ce n’erano sei, sette lattine. Lo aprii per cercare il tè alla pesca che mia madre preparava tutte le mattine e che metteva nella porta, sicura che noi lo avremmo scolato tutto prima di pranzo. Quella mattina non lo trovai. Non aveva avuto il tempo di prepararlo, in ritardo com’era. L’occhio mi cadde sul cassetto trasparente e sul suo contenuto.

«Adesso facciamo qualcosa di diverso!», esclamai con un mezzo sorriso.

«Ma sei impazzito?», mi domandò lei dopo aver visto cosa avevo in mano.

«È da un po’ di tempo che voglio assaggiarla. Vedo sempre mio padre che la beve, a cena. Proviamo?»

La vidi titubante, ma dopo qualche attimo di perplessità si lasciò andare ad un «Ma sì, proviamo!»

Non presi nemmeno i bicchieri, nel tentativo di non lasciare prove in giro. Tirai la linguetta e rischiai di farmi la doccia. Offrii a lei il primo sorso. Prese la lattina in mano, la guardò, poi bevve. Ingoiò velocemente, quasi come se fosse stata una medicina.

«Che schifo! È amara!»

Le presi la lattina dalla mano e tracannai anche io velocemente.

«È vero! È proprio amara!»

«Io non ne voglio più!»

«Nemmeno io! Fa proprio schifo! Buttiamola via!»

Ci avvicinammo al lavandino e lì rovesciammo il contenuto restante. Restava da eliminare quel cilindro di alluminio, che terminò la sua avventura nel cestino per rifiuti che c’era nella strada davanti a casa mia. Andammo insieme a buttarla e, mentre tornavamo indietro, sentivo la mia testa girare. Ci sedemmo attorno al tavolo, con un mazzo di carte pronto a svolgere il suo dovere. Avevamo compiuto il delitto perfetto, senza prove. Le nostre due madri tornarono dopo poco più di mezz’ora. Ci facemmo loro incontro e le abbracciammo, sicuri che avessero qualche sorpresa per noi. Così fu.

«Fammi un po’ sentire l’alito, tu!»

«Perché, mamma?»

Le bastò un’annusata per capire, così come accadde anche a Paola. Non ci fu il tempo di fornire nessuna spiegazione. Un ceffone a testa e quattro occhi che ci guardavano con severità. L’alito: non ci avevamo pensato minimamente! Il tempo trascorre, non so nemmeno io se troppo lentamente o troppo velocemente. Non voglio nemmeno sapere che ore siano. Da un po’ di giorni non porto neppure più l’orologio al polso. Non so come mai, ma il trascorrere del tempo è un qualcosa che mi spaventa, che mi fa sentire più vicino al buio. Lo sento sulla mia pelle, lo valuto con il numero di parole che riesco a scrivere. Mi sento un nodo alla gola. Sarà il caldo. Sarà che forse sto realizzando per la prima volta a quale tipo di buio mi faccio incontro. Sarà che pensare troppo a lei, a loro, mi riporta a soffrire come tanti anni fa, come pochi giorni fa. Ripercorrendo i miei cambiamenti e i miei comportamenti, mi sento come se avessi trascorso tanti anni della mia vita in balia di una ipnosi o di uno sdoppiamento di personalità. Ho sempre creduto che in noi ci siano due parti, una buona e una cattiva. Ho sempre creduto, anche, che le persone razionali possano controllare la parte cattiva, sopprimendola e umiliandola fino a quasi farla sparire. Sono disarmato, ora. Le mie valutazioni, fatte in un’età nella quale ci si pongono interrogativi pesanti, nella quale si inizia a prendere coscienza di ciò che si è, mi portano a concludere che non posso essere una persona razionale. In me ha vinto il male. Ha vinto quella voglia di rifarsi a qualunque costo, con qualunque mezzo, che può soltanto annebbiarti la vista, ovattarti l’udito, alterarti il tatto e l’olfatto. Se sei fortunato non riacquisti più i tuoi sensi com’erano in origine. Se ad essere fortunate sono le persone che ti circondano, ti svegli un mattino e, guardandoti allo specchio, ti dici: «Muori, bastardo!»

Mi ero proposto una severa autocensura, prima di scrivere, ma questa parola è l’unica che possa descrivere quelli come me. Sta squillando il telefono. Sarà meglio che risponda, per non insospettire chi mi chiama. Curioso: hanno messo giù non appena ho risposto. Magari si sono accorti di avere sbagliato numero. O, magari, era semplicemente qualcuno che non ha trovato il coraggio di gridarmi il suo odio, qualcuno che potrà gioire tra qualche giorno, forse addirittura tra qualche ora. Stavo perdendo il contatto con la realtà. Lo squillo del telefono mi ha ributtato nel presente, ma non sarà in grado di fermare lo sgorgare dei ricordi da quella fonte inesauribile che è il rimpianto. Per non distrarmi non ho neppure voglia di ascoltare della musica, anche se una canzone, ben nitida, mi rimbomba nelle orecchie: “E tu, fatta di sguardi, tu e di sorrisi ingenui, tu…”

Sarò senza fantasia, ma questa canzone sa riportarmi davanti agli occhi non una sola, ma due persone. La prima mi appare esattamente com’era. La seconda è più artefatta, filtrata alla luce degli accadimenti ultimi. Non la vedo diversa da com’era. Semplicemente diversa da come l’avevo sempre vista. Non mi sento ancora pronto a bombardarmi con i pensieri legati a Mara, anche se li sento lì, presenti, pressanti, potenti. Sono loro ad avere in pugno me, non io a servirmi di loro. Sguardi e sorrisi ingenui. Sono tra le poche cose che mi restano di Elena, oltre ad una ciocca di capelli. Mi pare che si fosse in terza elementare. Elena si era decisa a farseli tagliare. Pare impossibile a raccontarsi, ma dalla nascita non li aveva mai tagliati. Solo spuntati, per togliere le doppie punte. Mi annunciò la sua decisione mentre rincasavamo.

«Oggi voglio andare dalla pettinatrice. Vieni con me?»

Mi pareva decisa, così le risposi affermativamente. Ne avrei approfittato per dare una accorciata anche ai miei. All’epoca li portavo a spazzola ed era necessaria una ‘manutenzione’ molto frequente. Ci ritrovammo da me verso le quattordici e trenta. Arrivò coi capelli bagnati («Così la pettinatrice farà più in fretta», disse) e con Paola che la guardava un po’ intristita. Seppi solo dopo che, prima di uscire da casa, le aveva fatto una foto, per poterla ricordare con quella fluente e stupenda chioma. Pareva che soffrisse più la madre che la figlia, per quell’avvenimento. Ci incamminammo e in pochi minuti arrivammo davanti alla porta del negozio. Eravamo i primi, per quel pomeriggio. La titolare prese da parte la mia amica e sua madre e le introdusse in un’altra stanza. L’avrei rivista solo a lavoro compiuto. Io mi fermai in quello stanzone e la ragazza, l’apprendista che da solo un paio di mesi era lì a lavorare, mi fece accomodare su una delle poltrone. Si assentò un momento e ritornò con il rasoio. Mi fece scegliere la lunghezza che volevo, dopodiché mi fece lo shampoo e cominciò l’opera. Non ci vollero più di dieci minuti, cosicché fui poi costretto ad aspettare per più di tre quarti d’ora che loro uscissero dalla stanza nella quale erano entrate. Mi misi a sedere e presi in mano uno dei giornalini a fumetti che c’erano nel portariviste. Amavo molto leggere e la lettura mi avrebbe aiutato a sentire di meno l’attesa. Lessi la prima storia, la seconda, la terza. Presi in mano un secondo giornaletto e lo lessi per metà. Il tempo sembrava non passare mai, come in quelle notti nelle quali il sonno tarda ad arrivare, nelle quali, non appena ti sembra di addormentarti, ti senti cadere nel vuoto, ti senti sprofondare in un abisso. Allora, di certo, non paragonai questi due tipi di attesa. Mi limitai a sbuffare, dapprima di rado, poi sempre più frequentemente. La ragazza che mi aveva tagliato i capelli mi guardava tramite lo specchio. Sorrideva, mettendo i bigodini ad una signora di fuori, che io non conoscevo. Avevo ormai perso la speranza di rivedere Elena e Paola, quando la porta della stanza accanto si aprì con un leggero cigolio, come quelli che si sentono nei film d’orrore, solo un po’ più tenue. Mi alzai dalla poltrona nella quale m’ero sprofondato. Allungai il collo per vederla, ma la pettinatrice e Paola le erano davanti.

«Volete spostarvi, voi due?»

La sua frase ottenne il risultato voluto. Si spostarono velocemente e mi apparve.

«Come sto?»

Restai per un momento senza parole. La squadrai dalla testa ai piedi, anche se avrei potuto fermarmi alla testa, anzi, alle orecchie. Era proprio lì che i suoi capelli terminavano la loro corsa.

«Allora??? Mi vuoi dire come sto?»

«… ‘ene…»

Non ero neppure riuscito a dire per intero la parola. Si avvicinò a me, girandosi per far vedere anche la nuca. Descrivere la sua acconciatura, ora, mi è fin troppo facile. Basterebbe citare la famosissima protagonista corvina di un fumetto di Crepax. Mentre sua madre parlava con quella signora forestiera, moglie di un suo ex compagno di scuola, lei e io uscimmo dal locale.

«Dì un po’, hai perso la lingua?»

«No! È che mi ci devo abituare! Prima avevi i capelli che ti scendevano fino in fondo alla schiena, mentre ora…»

«Mentre ora?»

«Niente. Stai benissimo!»

«Guarda che se non è vero puoi anche dirmelo. Non mi offendo mica!»

«No, dico sul serio! È solo che ci devo fare l’abitudine!»

«Senti, ho una cosa per te! Non guardare.»

Feci ciò che mi aveva detto. Mi prese la mano.

«Aprila!», mi disse. Sentii qualcosa di quasi impalpabile, di morbido. Istintivamente riaprii gli occhi.

«Una ciocca di capelli? Grazie, ma, come mai?»

«Ne ho tenute due ciocche. Una per me, una per te. Voglio che tutti e due ci ricordiamo di quanto erano lunghi.»

La guardai un attimo. Mi sorrise. Per evitare di perderli feci un nodo ad un capo della ciocca. Poi, tenendola da quella parte, la arrotolai attorno alla mia mano. Non contai quanti giri riuscii a far fare a quei capelli. Molti, sicuramente. Paola sembrava non voler più uscire. Passammo una buona mezz’ora all’ombra, parlando di tutte quelle cose delle quali possono parlare due ragazzini di nove anni. Cartoni animati, giornalini, fantasie, progetti. Non vedevamo l’ora di andare a casa, ma non per restarci. Volevamo correre al fiume, subito.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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