Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!
«Ciao!»
Ci girammo di scatto.
«Visto che non arrivavate più, ho deciso di venirvi a cercare. Di già che ci sono, poi, mi faccio aggiustare i capelli anche io.»
«Oh, no!»
Proprio un bel coretto. Mia madre ci sorrise ed entrò. Vedemmo lei e Paola sedersi. Attorno al collo di ciascuna, subito dopo, fu messo quel particolare bavaglio che serve a convogliare i capelli appena tagliati. Ci lasciammo cadere, sedendoci per terra. Di andare al fiume, per quel giorno, non se ne sarebbe più parlato. Ho conservato quella ciocca anche nei giorni peggiori, quelli nei quali senti la voglia di sbarazzarti di tutto ciò che ti lega al passato, senti la necessità di tagliare i ponti con ciò che ti provoca il più grande dei dolori. È ancora nel mio cassetto, profumata come quel giorno, in un sacchetto di nylon. Penso che la porterò con me, in tasca. Già. Devo ancora decidere cosa portare con me. Ci penserò dopo. Ora non me la sento proprio. Ho solo voglia di ubriacarmi col passato. Con quello buono. Con quello cattivo. Con quello odioso. Con quello assassino. Non mi basta più, ormai, ubriacarmi d’altro, fino a farmi dolere il fegato, fino a vomitare sangue, come un malato di cirrosi. Quante volte Mara ha cercato di farmi smettere di bere e di fumare. Povera Mara. Povera Elena. O, forse, l’unico povero sono io. Povero dentro. Arido. Sordo. Incapace di reagire. Ora come ora so soltanto piangermi addosso. Amaramente, addosso. Non esiste una giustizia, secondo me. Non qui, almeno. Mi hanno insegnato, fin da quando ero un bambino, che dopo la vita c’è l’altra vita, quella vera. La vita che ti porta al Giudizio. Ci credevo. Sinceramente. Ci speravo, forse. La fede in un Dio, in una guida, in un qualcosa di più grande di noi è il maggior sostegno che una persona possa avere. Si perdono i giorni, gli anni, i propri cari. Se la fede resiste, però, si passa oltre. Ci si rimboccano le maniche. Si combatte. Si reagisce in nome di ciò in cui si crede. Si tenta di diventare migliori, c’è addirittura chi ci riesce. Io no. Non sono stato in grado di migliorare, di svegliarmi, di appigliarmi ad un qualcosa che mi consentisse di darmi una scossa. Non solo questo, non solo questo. La Comunione. Non posso dimenticarla. Ci siamo preparati per mesi. Suor Marina ci accoglieva tutti i Martedì alle quattordici e trenta e ci teneva per un paio d’ore, spiegandoci il catechismo. Anche la Domenica mattina alle dieci, poi, ci aiutava a scrivere le intenzioni, che avremmo letto dopo poco, durante la messa. Aveva una pazienza fuori dal normale. Sapeva come prendere ognuno di noi ed era anche riuscita a farci calmare un po’. Da quando è stata trasferita in un altro convento della diocesi non ho più avuto sue notizie. Chissà… magari sarebbe in grado di darmi una scossa positiva, di risvegliare quella parte buona che deve ancora esserci. Magari cercherebbe di giustificarmi, di farmi sentire meglio. No. Forse è meglio così. Sarebbe tutto più difficile. Mi illuderei una volta di più di avere ragione. Di aver sempre avuto ragione. Devo fuggire da tutto ciò che è positivo, da tutto ciò che potrebbe far sorgere in me il germe del dubbio… ricordavo la Comunione. Un momento bello, colmo di positività, o almeno così si potrebbe pensare. Lo fu. Lo fu fino al giorno nel quale le foto scattate in quell’occasione divennero un peso enorme, fino, cioè, all’origine della negatività che mi ha contraddistinto in questi ultimi anni. Tutti e dodici davanti all’altare, con don Luigi e suor Marina a far da ali, l’uno alla nostra destra, l’altra alla nostra sinistra. Elena e io, naturalmente vicini. Avevamo persino convinto i nostri genitori ad organizzare il pranzo nello stesso ristorante, con il risultato di far mescolare i suoi e i miei parenti in un’unica, grande sala. Sembravamo due sposini: lei con uno di quei classici vestiti-bomboniera, io, per la prima volta in vita mia, in giacca e con un’odiosissima cravatta al collo. Non ho mai imparato a fare il nodo alle cravatte. Ci penserà mio padre. A lui riesce molto semplice. Sposini. Più d’uno aveva usato quella parola. A otto anni, onestamente, dava fastidio. Ricordo molte delle persone presenti quel giorno. Molti dei suoi parenti, intendo. Non avrei mai potuto immaginare che li avrei rivisti in un’altra circostanza, con altre espressioni. Si divertirono molto tutti. Anche Paola e Mauro, suo marito, erano molto sereni, distesi. Felici, oserei dire. Noi due non ci curavamo di nessuno. Mangiavamo, bevevamo, giocavamo. C’era anche la cugina di Elena, quella tirata in ballo poco meno di un anno prima, a proposito della fiera. Mi sembrò che, effettivamente, le due bambine non fossero molto legate. Non so. Forse ero abituato troppo bene, ma il loro mi sembrava un rapporto freddo, quasi obbligato da una parentela che nessuna delle due aveva chiesto. Mi faceva una strana impressione sentire Elena così diversa da come era con me. Quando si rivolgeva a Benedetta cambiava tono di voce, come se tra loro non ci fosse nessun tipo di confidenza. Anche Andrea, invitato insieme all’altro mio cuginetto Stefano, suo fratello, aveva notato questa cosa. Mi sembrò che Elena si trovasse meglio con i miei cugini piuttosto che con la sua. Era la prima volta che la vedevo assumere un tale atteggiamento e avrei anche potuto provare fastidio, non fosse stato per il fatto che Benedetta stava antipatica anche a me… era cresciuta, fino a quel momento, nella bambagia. Non aveva mai dovuto versare una lacrima, se non per qualche capriccio. Non l’avrei vista piangere neppure dopo, quando un motivo l’avrebbe avuto. La giornata fu lunga, ma tutto sommato non mi dispiacque. Sarebbe stato il primo passo di avvicinamento a Dio, a quel Dio che suor Marina si proponeva di farci conoscere ogni giorno meglio. Avevamo invitato anche lei, ma declinò cortesemente. Non voleva fare un torto ad un paio di nostri compagni che avevano avuto la medesima idea, così passò quel pomeriggio al ricovero degli anziani. Amava tutti, aveva una parola buona per tutti. Non ho mai più conosciuto una persona devota e caritatevole come lei. I suoi insegnamenti mi hanno accompagnato fino ad un certo punto della vita e non è certo colpa sua se quel giorno li ho abbandonati, rinnegando tutto ciò in cui avevo creduto fino ad allora. Non so. Ho molta confusione in testa. Non è facile riprendere confidenza con un Dio che un giorno hai scoperto ostile o, meglio, che un giorno hai visto ostile. Mi sento veramente come uno dei pezzi di un enorme puzzle. Così ci avevano descritto il progetto divino. Un enorme, gigantesco puzzle che copriva e copre il mondo e nel quale ognuno aveva, ha, avrà un preciso posto. Ora, non so quale sia il mio. So quale è stato fino a poco tempo fa. So con quali altri pezzi ho interagito. So tutto del passato. Non so nulla del futuro. Non lo immagino. Non lo vedo. Forse non lo voglio. È difficile, come dicevo, scontrarsi con quella che è stata la propria religione, la “religio”, come dicevano gli antichi. Passare dalla fede cieca all’ateismo è una cosa difficilissima, che solo un trauma può provocare. Tornare ad essa per capire gli errori può soltanto causare un trauma. Tornare non più come fedele, non più come credente. Come imputato. Sentirsi processato non dalla gente che ci circonda, quella che sa valutare solo l’esteriorità, ma secondo le leggi date migliaia di anni fa da qualcuno che è superiore a ciascuno di noi. Ho sempre creduto, da bambino, che in una persona non possa esistere il male assoluto, che in ciascuno di noi almeno un fondo di bontà esista. Ho avuto la prova che non è così. Sulla mia pelle. Nella mia anima. Ogni volta che faccio una introspezione mi spavento. È come se rivedessi le mie azioni dall’esterno, dal punto di vista di un osservatore neutrale, capace solo di giudicare per quello che vede. Un tuffo. Uno schianto. Due frasi. Il fiume. In alcuni momenti le vedo insieme. Elena, Mara. Mara, Elena. L’altra notte le ho sognate. Erano sedute una di fianco all’altra, all’ombra degli alberi lungo il fiume. Le potevo vedere solo da dietro. Ero come legato, impossibilitato a muovermi. Avrei voluto chiamarle, ma loro non mi sentivano, o fingevano di non sentirmi. Senza mai girarsi verso di me si sono alzate e hanno fatto per andarsene. Le seguivo con lo sguardo, urlando i loro nomi, coprendo, inizialmente, un rumore che si faceva sempre più forte. All’orizzonte, un cielo sempre più nero. Un’onda. Un’onda enorme veniva verso di noi. Io urlavo sempre più forte. «Liberatemi! Slegatemi!»
Niente. Non una mossa da parte loro. L’acqua si faceva sempre più vicina e loro cominciavano a correrle incontro, mentre io mi agitavo sempre di più. Le ho viste sparire sul fronte dell’onda e, quando l’acqua mi ha raggiunto, mi sono svegliato. Ho capito tutto. Più che un sogno premonitore è stata una rivelazione. Come ho potuto ridurmi in questo stato? Come? Ci sono momenti nei quali mi sembra che l’inferno, quello stesso inferno che mi avevano insegnato a temere, che significa punizione, dannazione eterna, sia questo. Ho cominciato a credere che, se veramente esiste, la vita eterna possa essere solo migliore di quella che viviamo qui. Ho paura, però, che questa sia una delle mie illusioni, di quelle poche illusioni che ancora so farmi. Mi sto creando un mondo per il dopo, così come, fino ad ora, ho vissuto in due mondi entrambi miei, sebbene così diversi l’uno dall’altro. Uno la naturale conseguenza dell’altro, con il piccolo particolare che nessuno dei due è naturale, che nessuno dei due è giusto. In poco più di vent’anni mi sono successe cose che ad alcune persone non accadono in una vita lunga cento. Il segreto per vivere a lungo, dicono, è la serenità, il saper vivere in pace con sé e con gli altri. Se questo fosse vero, io non durerò molto. Mi sto accorgendo che spesso e volentieri scrivo cose che contraddicono ciò che avevo affermato solo qualche riga prima. Non so se questa sia una cosa normale, per chi è ridotto come me. So solamente che sto perdendomi sempre di più nel nulla. Da qualche giorno, poi, non riesco neppure più a porgermi delle domande sensate, ad avere una parvenza di normalità nelle mie azioni, nel mio comportamento. Ho una voglia pazza di piangere, di singhiozzare, magari anche per ore. Il problema è che il pianto non può riportarmi indietro. Le lacrime, purtroppo, non possono lavare le mie azioni, o, meglio, le mie colpe. Faccio molta fatica a trattenermi, specialmente quando la mia mente è occupata da episodi felici. Dopo l’esame di terza media andammo in campeggio insieme. Ci aggregammo ad un gruppo di nostri, ormai, ex compagni di scuola. Una dozzina di quattordicenni a dir poco scatenati e solo due poveri “tutori”, i genitori di Fabio. Restammo per una settimana in un camping in Riviera, con tende canadesi destinate a due persone che, di sera, si riempivano all’inverosimile. Riuscivamo a fare qualunque cosa, là dentro. Una volta, dopo cena, riuscimmo anche ad organizzare un torneo di Monopoli, da disputarsi in quattro tende distinte, con una partita di finale tra i quattro vincitori delle rispettive partite. Elena e io eravamo stati sorteggiati per la medesima partita e, secondo le regole del torneo, avremmo dovuto giocare ognuno per proprio conto. Cominciammo animati dai migliori propositi, ma dopo solo un paio di giri di dadi, ci alleammo per estromettere gli altri due e giocarci l’accesso alla finale tra di noi. Non faticammo molto ad accaparrarci i contratti migliori e a dividerceli a seconda della bisogna. Sembravamo due veri e propri imprenditori, con case e alberghi in ogni via o vicolo. In capo ad una decina di giri avevamo già ridotto sul lastrico il primo degli opponenti, che, per scherzo, si era ipotecato anche la tenda. Il secondo riuscì a resistere per più tempo, ma fu costretto anch’egli a cedere. Restava da definire chi tra noi due si sarebbe meritato l’accesso in finale. Come già ho avuto modo di dire, alle medie i miei sentimenti nei confronti di Elena si erano evoluti. Quella vacanza avrebbe potuto essere l’ideale per metterla al corrente della nuova luce sotto la quale la vedevo. La timidezza, purtroppo, mi frenava in una maniera indicibile. E dire che era in assoluto la persona con la quale avevo più confidenza. Sapeva proprio tutto, di me. Beh, quasi tutto. Non sapeva ancora la cosa che per me era più importante. Non riuscendo a trovare le parole per dirle ciò che provavo, avevo cominciato a comportarmi in maniera un po’ diversa. Cercavo sempre di accondiscendere alle sue richieste, molto spesso calpestando le mie esigenze. Non appena venivo a conoscenza di qualche suo desiderio, mi facevo in quattro, in otto pur di poterlo esaudire. Fui abbastanza fortunato, comunque. Una qualunque altra ragazza, vedendo il mio comportamento, ne avrebbe approfittato. Lei no. Non so se non si accorse sul serio o se non volle accorgersi del mio cambiamento, ma mai si comportò in maniera scorretta con me. Beh… quella sera rischiai seriamente di essere scoperto. Cominciai a giocare nel modo più assurdo, perdendo cifre enormi e passando in breve da un buon vantaggio ad un irrecuperabile distacco.
«Come mai stai giocando male così?»
Mi colse di sorpresa. «Lo vedi anche tu: sono particolarmente sfortunato, coi dadi!»
«Come se non mi fossi accorta che prima hai fatto sette e poi hai contato malamente, finendo apposta su Parco della Vittoria!»
«Non l’ho mica fatto apposta! Deve essere stato un errore dovuto alla stanchezza! Sai, ho molto sonno. Oggi ci siamo stancati parecchio. E poi, visto che te ne eri accorta, potevi anche dirmelo, che mi ero sbagliato!»
«Te l’ho detto, credevo che l’avessi fatto apposta! Per farmi vincere!»
«Figurati! Io voglio batterti! È solo che stasera gira male.»
Non mi sembrava molto convinta. Mi fermai a fissarla intensamente, mentre lei procedeva nel gioco leggendo un cartoncino delle “Probabilità”. Era semplicemente bellissima, appena sfiorata dalla luce della candela che avevamo acceso per poter giocare. Oddio, “candela”. Era un cero, di quelli che si usano nei cimiteri. Non faceva differenza, comunque. I nostri due amici se ne erano andati fuori, a respirare un po’ d’aria fresca e a mangiarsi qualche bella fetta di anguria fresca. Eravamo soli. Io e lei. Lei e io. Avrebbe potuto essere la volta buona.
«Senti…»
«Sì?»
«Niente…»
Il coraggio mi era mancato proprio sul più bello. Avevo sentito un forte nodo alla gola e un batticuore fortissimo, come quello che viene dopo aver corso per qualche minuto.
«Volevo solo dirti che sono costretto ad ipotecare anche gli ultimi due contratti: hai vinto tu!»
Coniglio. Ecco come mi sentivo. Avevo avuto l’occasione e l’avevo sprecata. Avrei guardato la finale di Monopoli seduto alle sue spalle, facendo il tifo per lei e consigliandola per il meglio. Che età stupida. Non che quella che sto vivendo ora sia migliore. Vinse, anche grazie a me. Se avessi potuto sapere quello che sarebbe successo soltanto un anno dopo. Se solo fossi riuscito a fare qualcosa. Reso incapace dalla paura, come nella tenda. Come il giorno della Cresima. Durante le lezioni di catechismo ci era stato detto che il giorno della Cresima sarebbe stato il più importante della nostra vita, quello nel quale l’avremmo dedicata al Signore. Suor Marina, però, ci aveva anche detto che il Vescovo, ad un certo punto della funzione, ci avrebbe dato uno schiaffo su una guancia. Quando me lo ritrovai davanti, ero il primo della fila, chiusi gli occhi non appena vidi che alzava la mano. Solo una carezza, ma le mie gambe tremavano ugualmente. Credevo profondamente in ciò che stavo facendo. Quella parola, ‘confermazione’, aveva un significato molto forte, sia per me, sia per Elena. Eravamo legatissimi a suor Marina e, di riflesso, a quel Dio che lei ci insegnava ad amare come amava lei. Ogni tanto, quando i suoi impegni umanitari glielo consentivano, ci veniva a trovare. Ricordo un pomeriggio nel quale arrivò a casa mia, sicura di trovarci insieme. Mancavano tre settimane scarse alla funzione. Suonò il campanello nel primo pomeriggio, le aprii la porta. Entrò, con una borsina di nylon in mano. Mia madre la fece accomodare in sala e andò a preparare il caffè. Elena e io ci sedemmo insieme a lei sul divano, con Candy che ci gironzolava intorno.
«Vi ho portato una piccola cosa ciascuno. Spero che sia gradita!»
Elena e io ci guardammo stupiti.
«Ecco!», disse, tirando fuori dal sacchetto due pacchettini sui quali spiccavano due fiocchi rossi.
«Uno a te, Dario, e uno a te, Elena!»
Restammo un attimo interdetti.
«Grazie, ma…», dicemmo in coro.
«Niente ‘ma’. Ora apriteli e…»
Non fece in tempo a terminare la frase. Candy si impossessò del suo velo, di quel velo dal quale nessuna suora deve mai separarsi. Non si arrabbiò per nulla, anzi, si mise a ridere, con una ciocca di capelli che le scendeva sugli occhi. Avrà avuto una cinquantina d’anni, ma senza quel velo ne dimostrava almeno dieci di meno.
«Vieni qui, bella scimmietta!», disse con tranquillità, mentre Elena corse a chiudere la finestra e io feci altrettanto con la porta.
«Guardate che buffa, ragazzi!»
Se lo era messo in testa e ne restava praticamente totalmente coperta. Approfittammo del fatto che non ci potesse vedere per recuperarlo. Elena la prese in braccio, sgridandola, mentre io restituivo il maltolto a suor Marina.
«Non la sgridare. È anche lei una creatura del Signore e non è giusto trattarla male.»
Sia lei, sia io restammo un attimo interdetti. Per noi era normale sgridarla o punirla, quando ne combinava qualcuna delle sue.
«Datela un po’ a me. Un animaletto così simpatico non può essere cattivo!»
La prese in braccio. Si calmò. Anche Candy parve rapita dai modi gentili e dalla voce pacata di quella donna.
«Apriteli, su!»
Riprendemmo in mano i pacchetti, che avevamo posato frettolosamente sul divano al momento del “furto”. Li aprimmo a tempo.
«Questi vi accompagneranno durante la vostra vita e spero vivamente che possano segnare i passi di un’esistenza felice, votata al prossimo.»
Due Vangeli, uno a testa.
«So che il Vangelo lo sentite già tutte le Domeniche, a messa, ma lì potrete trovare anche dei bei commenti, delle frasi molto significative.»
La ringraziammo con un bacio ciascuno, una su una guancia, l’altro sulla seconda.
«Ricordatevi che Dio vi ama e che vi amerà sempre. Anche quando penserete che tutto sia contro di voi, Egli ci sarà! E anche io!»
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