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Un sorriso illuminò quel viso roseo. Quello stesso viso che, a distanza di tre anni o poco più, avrei visto distrutto da un dolore fortissimo, da un dolore che l’avrebbe spinta a chiedere il trasferimento ad altra sede. Portammo quei Vangeli sempre con noi. Anche a scuola. Anche in gita. La gita scolastica, il primo anno di liceo. La nostra classe e la prima “B”, insieme, per cinque giorni a Firenze. Avrebbe potuto essere la mia grande occasione. Come in campeggio. Come in decine di altri momenti. Alle quattro del mattino ci trovammo sotto casa mia. La Panda di Paola era già stipata di valigie e zaini.
«E la mia roba? Dove la metto?»
«Scemo!»
Elena mi sorrise.
«Sembra che si stia via un mese, non cinque giorni.»
Mi guardò, facendo una smorfia compiaciuta. Caricai il mio borsone e il mio zaino, o, meglio, il vecchio zaino da alpino di mio padre. Nella tasca davanti, come sempre, quel libro. Come, del resto, nella tasca superiore del suo zainetto Invicta. Mia madre volle accompagnarci a tutti i costi. Si accomodò sul sedile di fianco a quello di Paola, retrocedendo noi due sul sedilone posteriore.
«Per starci tutti mi sa che dovremo scaricare un paio di borse!», dissi.
«Perché non le tue?»
Mi aveva punzecchiato proprio bene. Mi piaceva ancora di più, con quell’aria da saputella che la rendeva antipatica a molte nostre compagne. Ci sedemmo vicini, anzi, vicinissimi. Il viaggio fu breve, ma le sensazioni che provai furono talmente tante che non basterebbe un mese per descriverle tutte. Ero deciso. A costo di fare la figura dello stupido mi sarei dichiarato, le avrei detto tutto ciò che da un po’ covavo dentro. Arrivammo sul grande piazzale in perfetto ritardo, come sempre. Eravamo impazienti di salire sull’autobus, per vedere quali posti fossero ancora disponibili. I ragazzi dell’altra classe si erano accaparrati quelli in fondo, i più ambiti.
«Ecco! Ce li hanno già fregati!»
«Ma per te un posto si trova sempre, bella mia!»
Quello schifoso di Carlo. Era dal primo giorno di scuola che ci provava e il suo intento per quella gita si faceva chiaro dal primo momento.
«Puoi anche tenertelo, il tuo posto! Noi due ci sederemo davanti, perché io soffro il mal d’auto.»
L’aveva fulminato con una semplice occhiata e una frase, ma sarebbe tornato nuovamente all’assalto. Posammo i nostri giubbotti di jeans su due sedili attigui, poi scendemmo per caricare borse, borsone e zaini nella pancia dell’autobus. Tenemmo solamente i due sacchetti di nylon nei quali le nostre madri avevano messo panini e bibite per il viaggio di andata, i walkman, le carte e un libro ciascuno. Salutammo Paola e mia madre con un frettoloso bacio sulla guancia e salimmo, pronti ad immergerci in quella gita che attendevamo da almeno tre mesi. Ci sedemmo. Eravamo tranquilli, rilassati, anche un po’ assonnati. Lei volle posizionarsi vicino al finestrino, così da avere il completo controllo della tendina anti-sole. Accettai di buon grado la disposizione. Se quel maledetto Carlo si fosse avvicinato troppo, avrei potuto tenerlo a bada. Mi era veramente antipatico, o così almeno credevo. La verità era più semplice: ero gelosissimo di lui, di quella maturità fisica che lo faceva sembrare così più grande dei suoi quindici anni, di quell’aspetto da bullo che gli faceva conquistare ogni giorno una ragazza nuova. Elena no. Non l’avrebbe avuta. Anche a costo di fare a botte con lui, nonostante la decina di centimetri che gli rendevo. E dire che, prima di conoscerlo, ero orgoglioso di essere alto ‘ben’ un metro e ottanta. Davanti a lui mi sentivo ‘solo’ un metro e ottanta. Non so nemmeno io come spiegare il senso di inferiorità che avevo nei suoi confronti, so soltanto che, in un modo o nell’altro, lo avrei battuto. Tutti i miei pensieri svanirono quando, dopo poco più di mezz’ora di viaggio, sentii la sua testa appoggiarsi sulla mia spalla. Si era addormentata, anche favorita dal fatto che il sole non era ancora sorto. La guardai per un po’, con gli inseparabili occhiali da sole sul naso. Li portava anche di notte, esattamente come facevo io. Contrariamente a me, però, lei lo faceva più che altro per vezzo.
«Sai, mi donano quell’aspetto da donna misteriosa!», mi disse, ridendo, un giorno. A me la luce troppo forte ha sempre dato fastidio, fin da bambino. Persino nelle giornate nuvolose, persino con la nebbia. La guardai. Da troppo tempo, ormai, vedevo in lei qualcosa in più di un’amica. Ebbi la forte tentazione di baciarla, così indifesa, così bella, così vicina. Mi avvicinai un po’ con la testa, poi mi fermai. Non sarebbe stato giusto. Avrebbe dovuto essere consenziente. Un bacio rubato in quel modo, poi, avrebbe anche potuto rovinare i nostri rapporti. Fu difficile resistere, ma ci riuscii. Una timida carezza sulla guancia, nulla più. Nessuno mi vide e lei non si svegliò. Mi è sempre rimasto il dubbio che si fosse accorta di quella carezza, ma non volli mai domandarglielo. Nemmeno quel maledetto giorno. Mi spostai un poco per fare sì che la sua testa poggiasse meglio. Ero in una posizione decisamente scomoda, ma non mi mossi fino al momento nel quale, circa un’ora e mezza dopo, si svegliò, giusto in tempo per andare a fare colazione all’autogrill.
«Dormito bene?»
Sollevò gli occhiali dal naso, mostrando gli occhi ancora assonnati.
«Non c’è male. Hai dormito anche tu?»
«No»
«Come mai? Hai letto?»
«Nemmeno.»
«Cosa hai fatto per tutto questo tempo, allora?»
«Ti ho fatto da cuscino!»
Sorrise, mentre le sue guance prendevano un colorito rosso. Tralasciai di dirle che avevo passato praticamente tutto il tempo guardandola, pensando a quanto era bella, cercando un modo per farle capire i miei sentimenti.
«Potevi anche svegliarmi, no?»
Mi diede una spintarella nel piccolo corridoio del bus. Eravamo, guarda caso, gli ultimi a scendere.
«Cosa fai, non vieni?»
Mi ero fermato a guardare l’orizzonte, i fidi Ray Ban sul naso.
«Vai pure. Non ho molta fame.»
«No! O vieni anche tu o non mangio neppure io. E poi, dovrò pur farmi perdonare questa ronfata! Ti offro cappuccino e brioche!»
Sorrise. Mi avviai.
«Va bene! Mi hai convinto.»
Non si mosse finché non la raggiunsi, poi, insieme, entrammo nel bar della stazione di servizio. Gli altri avevano già praticamente finito. Ci appropinquammo al bancone, proprio dove stava terminando di bere il suo caffè il professore di matematica.
«Ben svegliata, Elena!»
Ci chiamava sempre per nome.
«Dario non ti ha staccato gli occhi di dosso nemmeno per un momento. Vero, Dario?»
Elena si girò verso di me, cercando conferma.
«Ma cosa dice, prof.? Sono rimasto girato verso di lei perché spostandomi si sarebbe svegliata!»
«Sarà, ma la guardavi con due occhi!»
Si allontanò, fiero delle osservazioni che aveva fatto.
«Non credergli! Lo sai che gli piace sempre scherzare, no?»
«Sarà, ma mi sa che toccherà a te offrirmi cappuccino e brioche. Guardandomi così tanto mi avrai consumato il profilo!»
Sorrisi.
«Va bene! Pago io, allora.»
«Guarda che io scherzavo. Mi vedi già tutto il giorno tutti i santi giorni e non credo che tu sia stato lì a fissarmi come uno scemo per più di due ore!»
Anche un colpo di scemo. La gita cominciava proprio nel migliore dei modi.
«Ehi, bella! Posso offrirti qualcosa?»
Già, proprio nel migliore dei modi. Aveva subito uno smacco alla partenza, ma già ci ritentava.
«Piuttosto che accettare qualcosa da te preferirei morire di fame…»
L’aveva freddato per la seconda volta, con mia profonda soddisfazione.
«Brava!», pensai a voce alta.
«Per cosa?», mi domandò.
«Eh?»
«Mi hai detto ‘brava’. Perché?»
«No, niente! Non farci caso! Stavo pensando ad altro.»
Non mi sembrava molto convinta. Volle pagare lei.
«Facciamo così: tornati sul pullman facciamo un partitone a briscola. Se perdo io ti do l’equivalente della colazione, altrimenti restiamo così. Ti va?»
«Mi proponi di giocare d’azzardo? Ci sto!»
Uscimmo di corsa dal bar. Incrociammo l’autista, che si raccomandò affinché facessimo una capatina alla toilette. «Guardate che non ci fermeremo più per almeno tre ore.»
Decidemmo di dargli retta, ma nonostante tutto fummo i primi a risalire sul nostro mezzo di locomozione. Ci sedemmo ai nostri posti. Tirai fuori i mazzi di carte da ramino che portavo nelle due tasche della camicia di jeans. Dopo l’ultima partita li avevamo riposti in maniera disordinata, mescolando carte blu e carte rosse. Ne prendemmo uno a testa e cominciammo a separarle, proprio mentre i nostri compagni e quelli di prima “B” prendevano posto. Carlo passò, volse gli occhi verso di lei e sorrise, sollevando un angolo della bocca. Quanto avrei voluto dargli un pugno in faccia. Elena non si accorse di quelle “attenzioni”. Era troppo impegnata nel suo lavoro di smistamento. Io feci finta di nulla, ma la cosa mi costò parecchio. Ripartimmo. Riuscimmo a malapena a cominciare la prima mano, che subito si levarono dal fondo dell’autobus cori stonati. La canzone del sole, Il gatto e la volpe, Knockin’ on Heaven’s door, Generale, Let it be e chi più ne ha, più ne metta. A dirigere i canti, sempre lui. Aveva portato la sua chitarra bianca e rossa con l’intenzione di dare sfoggio delle sue capacità musicali. Elena ascoltò la prima canzone, poi, sempre più nervosamente, la seconda e un pezzo della terza. Sbuffò, poi si mise gli auricolari e accese il walkman. Anche questa era andata. Nemmeno impegnandosi artisticamente (almeno così credeva lui) era riuscito a smuoverla, a creare in lei un minimo interesse. Mi rilassai nuovamente, come era accaduto all’inizio del viaggio. La confusione sul pullman si faceva sempre maggiore. Ai maldestri cantanti si aggiungeva gente che transitava avanti e indietro nel corridoio, oltre ai soliti che non trovavano nulla di meglio da fare che gridare. In mezzo a tutto quel casino, noi due continuavamo imperterriti. Eravamo ancora pari quando il professore di matematica, sempre lui, si avvicinò a noi.
«Vedo che il sonno vi è passato…»
Elena spense il walkman. «Sì, con tutta la cagnara che fanno si può proprio dormire!»
«Già! Tu parli così perché intanto il tuo riposino te lo sei fatto, prima!»
«Scemo!»
Ci guardammo negli occhi e scoppiammo a ridere.
«Voi due non me la raccontate per niente giusta, lo sapete?»
Elena si fece seria.
«Non vedo cosa ci sia di strano nel fatto che una ragazza e un ragazzo possano essere semplicemente amici! È una cosa così fuori dal normale?»
«No, no, solo che nei vostri comportamenti si vede una complicità che va al di là dell’amicizia.»
«Se è convinto di quello che dice non posso certo farle cambiare idea. Sappia solo che noi due amici siamo e amici resteremo!»
Quel dialogo mi aveva portato via in un attimo tutta la tranquillità che avevo riacquistato non molto tempo prima. «… semplicemente amici…» «… amici siamo e amici resteremo…» Se ripenso al modo nel quale disse queste frasi ancora sto male. So che è assurdo, specie dopo tutto quello che è accaduto, ma giuro che in quel momento mi sentii proprio come se mi fosse caduto addosso un macigno. Non ebbi nemmeno il coraggio di domandarle: «Ma lo pensi veramente?», oppure: «Ma ne sei proprio convinta?»
Niente! Non riuscii a proferir parola. Se ne accorse quasi subito, non appena il nostro interlocutore si allontanò.
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