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«Cos’hai?»
«Niente! Ho avuto un po’ di incubi. Anzi, scusatemi se vi ho disturbati, durante la notte!»
«Non c’è problema, ma… vatti a vedere allo specchio. Hai una faccia!»
Andai in bagno.
«Già! Faccio proprio schifo! Se non vi dispiace, visto che già ci sono, vorrei usufruire per primo del bagno.»
«Fai pure, tanto sono passate da poco le sette. Abbiamo tempo.»
Mi lavai la faccia con l’acqua fredda per tre o quattro volte, nel tentativo di alleggerire i segni provocati dalla stanchezza. Il risultato non fu dei migliori, al punto che tutti i miei compagni mi fecero la stessa domanda rivoltami da Fabio non appena mi ero alzato. Il programma della giornata fu brutalmente tagliato a metà.
Subito dopo pranzo, infatti, il cielo, rimasto plumbeo per tutta la mattinata, decise di replicare lo spettacolo della notte precedente. I professori non se la sentirono di portarci in giro con quell’acquazzone e decisero che sarebbe stato molto meglio restare in albergo. Potevamo circolare liberamente da una stanza all’altra, mentre loro tre, nel salone dell’hotel, si divertivano a vedere la televisione. Fabio e Gianni andarono dalle rispettive ragazze piuttosto presto, verso le quattordici.
«Tu non vieni?»
«Tra poco. Prima vorrei stendermi un po’ sul letto. Non ho ancora smaltito la pessima nottata.»
Li salutai, dando loro appuntamento alle quindici circa, nella stanza accanto. Un gran viavai nel corridoio mi impediva di riposarmi come volevo. Sentii aprirsi e quasi subito richiudersi la porta della stanza accanto alla nostra. Passarono pochi secondi, poi riconobbi la voce di Carlo e quella di Elena.
«Ma dai! Lo so che ti piaccio! Perché non vieni in camera mia? Ho mandato via apposta i miei compagni di stanza!»
«Ti ho detto di no. Mi devi lasciare stare, hai capito?»
Uscii proprio mentre lui la stava prendendo per le braccia. Non ci vidi più. Lo colpii con quanta forza avevo in corpo. Cadde a terra, il naso sanguinante. Gli occhi di Elena, sbarrati, avevano seguito la scena.
«Vai nella mia camera, presto!»
Le stavo aprendo la porta quando sentii una mano sulla spalla. Mi voltai, giusto in tempo per scontrarmi con un pugno di quell’energumeno. Mi fece cadere e me lo ritrovai addosso. Riuscii a ripararmi abbastanza bene il viso, ma i suoi colpi mi facevano male.
«Lascialo stare, maledetto! Lascialo!»
Dopo qualche momento mi sentii libero di alzarmi. Riaprii gli occhi e la prima cosa che vidi fu il suo viso.
«Dario! Dario, ti prego, svegliati!»
Avevo perso per qualche momento i sensi. Era veramente troppo forte per me. Non fosse stato per Fabio e Gianni non so come me la sarei cavata. Mi raccontarono dopo che avevano fatto fatica a sollevarlo in due, mentre Simona era corsa di sotto ad avvisare i professori. Mi aspettava un processo in piena regola, con tanto di sospensione scolastica finale. Elena mi accompagnò in camera, dopo avermi aiutato a rialzarmi.
«Perché? Perché ti sei buttato su quel bestione in quel modo?»
«Avevo visto che ti stava facendo male alle braccia e volevo che la smettesse. Certo che mena, eh?»
Sanguinavo anche io dal naso. Elena prese uno degli asciugamani dell’hotel e lo bagnò ben bene con l’acqua fredda. Me lo mise in faccia, cercando di tamponare il flusso del sangue.
«Sei proprio uno stupido!»
«Bel ringraziamento! Mi prendo un sacco di botte per aiutarti e mi sento ancora dire che sono stupido! La prossima volta lascio che ti trascini in camera sua!»
«Hai sentito tutto? Tu hai sentito tutto quello che mi diceva? Allora non sei arrivato lì per caso!»
«E come facevo a non sentirvi? Gridavate come se foste stati al mercato!»
«Ciò non toglie che tu sia uno stupido! Me la sarei cavata anche da sola, con lui! Comunque sia, grazie! Veramente.»
Un bacio in fronte. Mi ero fatto rifare la faccia per un bacio in fronte. Dopo pochi minuti arrivò il professore di matematica in compagnia di un medico.
«A questo è andata meglio! È un po’ pesto, ma non ha niente di rotto. L’altro, invece: il naso e lo zigomo destro fratturati. Un brutto colpo!»
Una volta ringraziato e salutato il medico, le attenzioni del professore furono rivolte tutte a me.
«Mi sa che passerai parecchi guai, Dario! Mi vuoi spiegare cosa ti è saltato in mente di prenderti a botte con Carlo?»
«Se permette, glielo spiegherò io. Quel maiale mi aveva messo le mani addosso e lui è intervenuto solo per difendermi. Lo ha spostato con un colpo, poi ha cercato di farmi entrare qui. L’altro gli è saltato addosso e lo ha ridotto come vede. Non è stata colpa sua!»
«E perché dovrei crederti? A parte il fatto che Carlo non mi ha voluto dire per quale motivo sia venuto alle mani con lui, tu mi sembri un po’ troppo di parte!»
«Vuole vedere i segni che quello là mi ha fatto sulle braccia? Guardi, guardi pure!»
«Vedo, vedo. Sarà meglio che tu ci metta un po’ di pomata. Per quello che riguarda te, poi…»
Si volse verso di me.
«Faresti meglio a ringraziare la tua compagna. Ti ha evitato una sospensione sicura! Troverò io il modo per fare passare a Carlo la voglia di prendersela con le ragazze. Voi state solo attenti a non combinarne altre. Mi costringereste a prendere provvedimenti. Cerca di riposare, adesso!»
Uscì silenziosamente.
«Grazie! Veramente! Questa volta sei stata tu a rischiare in prima persona per salvarmi! Siamo pari.»
«Mica vero! Io non sono mica stata picchiata dal professore. Tu, invece, dovresti vedere che bella faccina ti ritrovi!»
«Non farmi ridere, che ho un male bestia!»
Ci fissammo per alcuni attimi.
«Permesso?»
«Avanti, avanti!»
«Ci hanno detto che un bulldozer ti è passato sulla faccia.»
«Siete proprio simpaticissimi!»
Mi raccontarono come avevano visto la scena loro quattro.
«Beh, credo che un ringraziamento vada anche a voi! Senza la vostra prontezza di riflessi mi avrebbe distrutto! Ho un dubbio, però: non potevate arrivare un momento prima?»
Risero tutti. Anche lei. Si era presa un grosso spavento. Glielo leggevo negli occhi. Glielo avevo letto anche quando si era chinata per soccorrermi. Non so se la vista mi avesse fatto cilecca, ma mi era sembrato che in quel momento stessero lacrimando. Non era quello, comunque, il momento migliore per approfondire l’argomento. Passammo più di un’ora a parlare di ciò che era accaduto, poi le due coppie si accomiatarono per concedersi un gelato. Elena volle restare con me.
«Adesso cerca di dormire un po’! Vado giù a prenderti una bottiglia d’acqua. Arrivo subito.»
Fu di parola. Dopo neppure cinque minuti fu di ritorno. Chiuse la porta a chiave, poi si avvicinò al letto.
«Se vuoi mi corico qui di fianco a te, come facevamo da piccoli. Ti ricordi?»
«Sì! Sapessi come rimpiango quei momenti!»
«A volte anche io, sai? Avevamo meno problemi, meno preoccupazioni! Potevamo andare al fiume praticamente tutti i giorni!»
«Già! Adesso, invece, tra compiti e lezioni riusciamo ad andarci una volta alla settimana quando va bene. Mi mancano quei pomeriggi spensierati, le nuotate, le battute di pesca.»
«Ah, però quest’estate ci rifacciamo! Ci andremo tutti i giorni! Porteremo anche i libri per studiare. Vero?»
«Ci puoi giurare! Ieri, guardando l’Arno, mi è preso quasi un nodo alla gola. Ho ripensato al fiume, a Gino e alla morte!»
«Anche io penso spesso a Gino. E a Monica. I miei l’avrebbero chiamata così, lo sai, no?»
«Sì, lo so.»
«Sai, il fatto che io non l’abbia potuta nemmeno vedere mi ha segnata. Morire prima ancora di nascere: è uno degli assurdi peggiori di questo mondo! Anche suor Marina ci è rimasta molto male. Vedeva mia madre così felice, così realizzata per quella gravidanza! Invece…»
La sua voce fu rotta dal pianto. Senza accorgermene la abbracciai, restando in silenzio. La lasciai sfogare, con la testa poggiata sulla mia spalla. Erano trascorsi più di sei anni da quella triste giornata, ma il ricordo era sempre vivo. Un forte dolore alla pancia, la corsa in ospedale, il cesareo per tentare l’impossibile. Morta. Monica era nata morta. I medici affermarono che la causa di quella disgrazia era stata una lacerazione della placenta, che aveva fatto ‘marcire’ il liquido amniotico. Paola e Mauro, distrutti, si chiusero nel loro dolore. Ci vollero parecchie settimane perché ricominciassero la vita di tutti i giorni. Solo Elena era riuscita a smuoverli, a farli reagire. Si erano attaccati a lei come mai prima d’allora e lei si dimostrò molto forte, nonostante avesse solo nove anni. Il pianto di quel giorno dimostrò quanto anche lei avesse bisogno di un appoggio, di un appiglio. Si addormentò in quella posizione, col viso rigato dalle lacrime. Non ebbi il coraggio di fare nulla. La sentivo indifesa, molto più di quando Carlo l’aveva afferrata per le braccia. Per l’ennesima volta, poi, mi aveva aperto il suo cuore, mi aveva confidato ciò che, ne ero sicuro, non aveva mai detto ad altri. Non potevo tradirla, non potevo venire a mancarle proprio nel momento nel quale aveva più bisogno di me. Le sarei stato vicino, cercando di reprimere i miei desideri nei suoi confronti. Non sarebbe stato per niente facile. Sentivo la mia parte cattiva che mi suggeriva di approfittare della situazione, di farmi avanti, di sfruttare quel varco che si era aperto nella sua sicurezza per portare il colpo che avrebbe potuto darmi la vittoria finale. Quale vittoria? Quale soddisfazione avrei potuto provare nel tradire la fiducia di una persona che affidava a me i suoi segreti più nascosti? Passai tutto il pomeriggio con quell’alternanza di pensieri buoni e cattivi, senza riuscire a chiarirmi le idee. Il campanile della vicina chiesa batté le sei e mezza. Ancora un’ora prima di scendere per la cena. Sentii bussare alla porta. Tolsi delicatamente il braccio che la cingeva e mi alzai per andare ad aprire.
«Entrate.», dissi sottovoce.
«Siamo venuti a cambiarci per la cena. Visto che lei dorme prendiamo le robe e andiamo di là.»
«Va bene! Sentite un attimo: io non ho per niente voglia di scendere a cenare e se lei non si sveglia da sola io non la chiamo di sicuro. Potreste trovare una scusa con i prof.? Che so, dite che io non stavo ancora molto bene e che lei si è fermata a farmi gli impacchi. Vedete un po’ voi!»
«Non ti preoccupare: a questo pensiamo noi!»
Se ne andarono con i vestiti sottobraccio. Chiusi la porta con un’attenzione che non avevo mai usato. Mi girai verso il letto. Si stava muovendo. Il suo sonno, fino ad allora tranquillo, si stava facendo agitato.
«No! »
Scattò a sedere sul letto.
«Che c’è? Calma! Va tutto bene!»
«Dario? E tu cosa ci fai qui?»
«Io sarei nella mia stanza. L’intrusa sei tu.»
Cercai di sorriderle, ma la faccia mi doleva ancora.
«Ah, sì! Ora ricordo! La scazzottata, la tua faccia gonfia! Che ore sono?»
«Sono passate le sei e mezza. Per la precisione sono…»
Mi avvicinai alla finestra per scorgere l’orologio del campanile.
«Le sette meno un quarto!»
«Le sette meno un quarto? Ma è quasi ora di cena! Devo andare a prepararmi! Tu scendi?»
«No. Non ho molta fame. Penso che aspetterò qui che voi torniate. Anche se dolorante non rinuncio alla nostra solita seratina!»
«Hai sempre voglia di scherzare, tu. Quasi quasi scendo a prenderti la cena e te la porto in camera. Ti va?»
«Solo se mangi anche tu qui con me.»
«Per me va bene. Aspetta che vado a chiedere ai professori se è possibile farlo!»
«Elena…»
«Sì?»
«Prima lavati la faccia!»
Ero riuscito a farla sorridere. Sembrava aver dimenticato i brutti discorsi di quel pomeriggio. Io no. Nella mia testa regnava ancora sovrana la confusione. Uscì e io mi coricai nuovamente. Mi assopii, ma il riposo durò poco. Alle diciannove e trenta precise, infatti, la porta si aprì per lasciar entrare un cameriere con un carrellino sul quale erano posti due vassoi e due bottiglie d’acqua, immediatamente seguito dalla mia ‘infermiera’.
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