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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

«Tu amavi Elena?»

«Sì! La amavo con tutto me stesso. Avrei anche potuto uccidere per difenderla, per poter stare con lei, per poterla avere sempre al mio fianco. La amavo sopra ogni altra cosa o persona al mondo. Lei era la mia vita. La mia vita che, ora, non c’è più.»

Già. Ma cosa potrà saperne uno psicoterapeuta dell’amore. È una persona fredda, razionale, che valuta ogni tua mossa alla luce delle teorie di questo o di quel grande padre della psicoterapia. Cosa può saperne, lui, del piacere che può dare un sorriso appena accennato da parte della persona alla quale vuoi bene. Cosa può saperne, lui, che ha come massima aspirazione il domandarsi «Perché?» ogni volta che parli, di ciò che può provare un ragazzo di quindici anni quando vede finire nel nulla tutta la sua vita, passata e futura. Già. Solo passato e futuro. Il presente sembra non esistere più, anche se è l’unico legame con la vita. È solo una ulteriore agonia. Il passato c’è per ricordarti i tuoi errori. Il futuro c’è per spaventarti, per farti capire che sarebbe meglio se non esistesse, almeno per te. Il presente non c’è. O, meglio, non lo vivi. Più che altro, non lo comprendi. È molto più facile vivere, rivivere, rivivere ancora, migliaia, milioni di volte, il passato, con tutto ciò che si porta dietro. È molto più facile pensare al futuro e non vederlo. Ma capire il presente, valutare ciò che si sta vivendo, è la cosa in assoluto più difficile da fare. Già per se stessi. Figurarsi per gli altri. Per lui no. Nulla è impossibile.

«Tu adesso stai pensando questo per quel motivo…»

Non è vero niente. Non ha mai capito niente di me. Mi ha solo aiutato a far crescere la scorza che mi ha coperto il cuore negli ultimi tempi. Un cuore che è marcito, oppresso da un guscio che gli ha impedito di battere come avrebbe dovuto. Un cuore colmo di lacrime. Lacrime vecchie. Lacrime nuove.

«Sai, domenica sera c’è una festa per l’inaugurazione di un locale da ballo. Ci andiamo insieme?»

«Se proprio vuoi. Sappi che a me queste feste non divertono affatto.»

«Al massimo, se dovessi annoiarti, usciremo prima! Per me non ci sarebbero problemi!»

«Per me nemmeno.»

«A venire?»

«No! A uscire prima.»

Era convinta che quello fosse il mio modo di scherzare, di tirarmela un po’. Mi conosceva, ormai, da più di un mese. O, meglio, conosceva il Dario che a lei andava di conoscere. Non sapeva niente di quello che mi portavo dentro, come, forse, era giusto che fosse. Passò tutta la Domenica a consigliarmi sui capi di vestiario da indossare.

«Vieni con la giacca, quella blu. Sotto puoi mettere i pantaloni chiari!»

«Non ne ho, di pantaloni chiari.»

«Ma non raccontarne più! Li ho visti io nel tuo armadio l’altro giorno, mentre tu stavi cercando la maglietta dei Guns!»

Già. Non mi aspettava più fuori. Mia madre l’aveva invitata in casa un pomeriggio nel quale pioveva.

«Venga, signorina! Non faccia caso a mio figlio! Abbiamo cercato di educarlo al meglio, ma, evidentemente, abbiamo sbagliato qualcosa!»

«Non si preoccupi, signora. Lui mi ha offerto di entrare, qualche volta, ma io mi sono sempre rifiutata. Per non disturbare!»
Non era assolutamente vero. Non l’avevo mai voluta far entrare perché non toccasse quell’unica parte del mio mondo che resisteva ancora, che era ancora come io la volevo. La mia camera, con i cassetti all’interno dei quali ancora conservo il fazzoletto, la ciocca di capelli… il tempo, lì, pareva non essere trascorso. Nonostante le insistenze di mio padre, non volli nemmeno che venisse reimbiancata. No. Tutto era rimasto, a grandi linee, come allora. Non ho mai più rivisto la camera di Elena. Le pareti tappezzate da poster. Non di cantanti. No. Raffiguravano cani e gatti. In una cornicetta d’argento, dono per la Comunione, una nostra foto, di quando eravamo a Firenze. Di dopo la scazzottata. Le avevo chiesto di metterne una di qualche giorno prima.

«A me piace quella. Almeno posso vederti sempre un po’ più carino di come sei di solito!»

Aveva sempre, ma proprio sempre, la battuta pronta. Almeno fino a quel pomeriggio.

«Dai, Dario! Non fare il bambino! Lo sai che senza la giacca in discoteca non ti lasciano entrare, no?»

«Vorrà dire che resterò fuori! La cosa non mi dispiacerebbe affatto.»

«Stai scherzando, vero?»

«Secondo te?»

«Sì, stai scherzando! Allora, pantaloni beige, camicia a quadrettini, giacca blu. Ti passo a prendere alle dieci, ok?»

Non le risposi. Non riuscivo a capire cosa volesse sempre da me, per quale motivo volesse sempre che la accompagnassi dappertutto. Io non chiedevo altro che rimanere da solo con i miei pensieri, con i miei quotidiani viaggi al camposanto. Lei mi scombussolava tutto. Ero quasi risentito nei suoi confronti. C’era, però, qualcosa. Allora non sapevo, di preciso, cosa potesse essere. Era come un sesto senso che mi obbligava quasi a seguirla in tutte le sue cose, a volte anche ad assecondarla. Ora so cos’era. Avevo ricominciato a ragionare con gli ormoni, a non seguire il buon senso. Quella sera mi vestii, anche se lasciando malvolentieri i miei jeans neri e le mie magliette del medesimo colore, come mi aveva consigliato lei. Non badavo mai molto al mio aspetto fisico. Non me ne fregava niente, sinceramente. I pochi capi di vestiario eleganti che avevo nell’armadio c’erano arrivati grazie a mia madre e a mio padre, che me li avevano regalati per qualche compleanno o per qualche Natale.

«Ecco! Così sembri subito un altro ragazzo! Ma, quelle scarpe!»

«Che cos’hanno che non va le mie Nike?»

«Ti prego! Vai a metterti un paio di mocassini o…»

«Va bene, va bene. Me le cambio. Vorrei solo sapere che cosa c’è che non va in queste.»

Tornai in capo ad un paio di minuti. Nei piedi, un paio di scarpe legate, praticamente nuove. Una autentica tortura.

«Ecco! Adesso sì che vai bene!»

«Guarda che io devo andare bene solo per me stesso e per nessun altro! Non me ne importa nulla di ciò che la gente pensi o dica di me. Loro non sanno cosa ho passato! Non lo possono sapere! Tantomeno possono giudicarmi, o valutare il mio modo di vestire!»

Dissi quelle frasi con voce dura, rabbiosa. Mara si fece seria.

«Scusami.»

Passai tutto il viaggio con lo sguardo rivolto verso il ciglio della strada. Lei, in silenzio.

«Ecco! Questo è il parcheggio del locale.»

Il suo tono di voce lasciava capire quanto la mia reazione l’avesse urtata. Non era arrabbiata, anzi. Sembrava uno di quei bambini che sanno di averla combinata grossa e cercano di rientrare nelle grazie dei genitori.

«Aspetta un attimo, che ti do il biglietto omaggio.»

«Grazie.»

Anche il mio tono di voce era un po’ cambiato, ma quel «Grazie.» mi uscì quasi come un grugnito.

«Dario?»

«Mmh.»

«Niente! Volevo solo dirti che io sono a disposizione per parlare con te di qualunque cosa ti preoccupi.»

«Non c’è proprio niente che mi preoccupi. Io sono fatto così e basta. Ce l’ho con tutti quelli che non sanno niente di te e che pretendono di consigliarti o, peggio ancora, che sanno di poter giudicare, senza commettere errori, le tue azioni. Potessero…»

Non mi lasciò terminare la frase.

«Ho capito! Comunque sia, il mio invito resta sempre valido! Tra amici bisogna essere solidali, no?»

«Già. Grazie.»

«Di niente!»

Sembrò rasserenarsi. Scendemmo dalla Due Cavalli, da lei ribattezzata Bonnie, e ci incamminammo verso l’ingresso del locale.

«Madonna, che casino! Si sente fin da qui!»

«È la cosa più bella! Non vorrai farmi credere che non sei mai andato in discoteca?»

«E invece è proprio così. Non me ne frega niente di farmi vedere in giro, specialmente in questi posti frequentati per il novanta per cento da gente senza cervello!»

«Mamma mia! Ma quanti anni hai? Diciassette o cinquanta? Mi sembri mia nonna! Anche lei mi fa ragionamenti di questo genere tutte le volte che esco per andare in una qualche discoteca!»

«Io ti ho detto solo quello che penso.»

«Allora dimmi una cosa: io rientro in quel novanta per cento o…»

Rimasi in silenzio.

«Allora? Mi vuoi rispondere? Guarda che io non mi offendo mica!»

Reiterai il mio silenzio precedente.

«Guarda che sei proprio un bel tipo! Prima lanci la pietra e poi nascondi la mano! Dario? Ma mi ascolti?»

«Dipende.»

«Che cosa dipende?»

«La mia risposta. Dipende da alcune cose che valuterò nel corso della serata.»

Non si spinse oltre. Tirai fuori una sigaretta dal pacchetto e l’accendino dalla tasca dei pantaloni. La accesi con calma. Aspirai piano. La vidi mentre mi guardava, abbastanza contrariata, ma con espressione bonaria.

«Scommettiamo che riesco a farti smettere di fumare?»

«No.»

«Non vuoi scommettere?»

«No. Non voglio smettere. O, forse, non sono semplicemente in grado di farlo.»

«È solo una questione di volontà!»

«Appunto: io non voglio.»

Quello fu solo il primo round di una serie infinita. Passai praticamente l’intera serata seduto sui vari divanetti disseminati per tutto il locale.

«Non bere così tanto, Dario! Ti fa male! Vieni a ballare un po’ con me, dai!»

«Non sono capace. E poi, lasciami finire la vodka!»

«Ma hai già bevuto tre birre e due bicchieri di tequila! Poi starai male!»

«Guarda che io l’alcool lo reggo benissimo. E poi, non sei mica mia madre!»

Aspettò pazientemente che io finissi di vuotare il bicchiere, poi mi trascinò letteralmente via.

«Vieni! Usciamo di qui!»

Era passata da poco l’una.

«Non ti ho portato con me per vederti ubriacare!»

Impiegammo qualche minuto ad arrivare alla macchina, anche perché incontrammo un folto gruppo di persone che si muoveva nella direzione opposta rispetto alla nostra.

«Imbecilli!»

Fece finta di non sentirmi.

«Adesso ci facciamo un bel giro, eh?»

Mi fece sedere in macchina.

«Guarda che non sono ubriaco. Credimi. Ci vuole ben altro per buttarmi giù.»

La capotte sopra la mia testa lasciava spazio ad un cielo stellato.

«Allora, visto che non sei ubriaco, allacciati la cintura di sicurezza da solo!»

Provai una prima volta. Niente. Provai una seconda e la allacciai alla sua. Al terzo tentativo, finalmente, la allacciai come si doveva.

«Visto? Te l’avevo detto che non ero ubriaco!»

Ricordo come se fosse ora la sua risata. Mi portò in giro per più di un’ora. L’aria frizzante di quella notte di settembre mi risvegliò in parte i riflessi.

«No.»

«Cosa dici?»

«Ho detto no.»

«Allora mi sa che la sbronza non ti è passata! Chissà fino a che ora mi toccherà girare per…»

«Non ti preoccupare. ‘No’ è la risposta alla domanda che mi avevi fatto prima.»

Sorrise.

«Senti, non ti posso riportare a casa in queste condizioni! Puzzi di alcool da fare schifo! Passiamo prima da casa dei miei nonni, così ti faccio un bel caffè e ti dai una risciacquata. Tanto loro non ci sono! Sono al mare fino alla fine del mese!»
Annuii. Passammo dall’altra parte rispetto al viale sul quale si trova casa mia.

«Facciamo un po’ più di strada, ma almeno siamo sicuri di non farci vedere dai tuoi.», mi disse. Quella fu la prima volta che entrai in quella che da un paio di mesi appena era diventata casa sua. Aprì il portoncino e accese la luce. La lunga gonna le fasciava i fianchi e le gambe, mettendo in risalto il suo bellissimo fisico. La giacca, corta, lasciava intravedere la sottostante camicia di seta blu. Una specie di brivido pervase il mio corpo. Lì per lì, lo imputai alla corsa sull’auto decappottata. A distanza di anni, però, riesco a fare maggiore luce su quale fosse la causa scatenante di quella sensazione.

«Vieni pure! Attento al…»

Non aveva avuto il tempo di finire la frase. Ero inciampato nel gradino che c’era subito dopo la soglia.

«Gradino! Ti sei fatto male?»

«No! Non è niente. Mi sa che avevi ragione tu. Un po’ ubriaco lo sono.»

Sorrise.

«Vieni in cucina!»

La seguii.

«Mettiti pure comodo, mentre io ti preparo il caffè. Se vuoi rinfrescarti, fai pure. Lì vicino al lavandino c’è l’asciugamano. È quello che uso per i piatti. Spero non ti dispiaccia!»

«Non mi faccio problemi.»

Ci vollero pochi minuti perché il caffè fosse pronto. Ne ingoiai una tazza, mi lavai nuovamente la faccia, poi mi incamminai verso casa.

«Lascia che ti accompagni in macchina, dai!»

«No. Lascia perdere. Vai pure a dormire. Due passi mi sveglieranno del tutto. Buona notte.»

«Buona notte a te, Dario. E grazie!»

«Per cosa, scusa?»

«Per aver abbandonato il tuo solito abbigliamento. Per esserti vestito, anche se solo per una sera, come ti ho consigliato io. Grazie!»

Mi baciò su una guancia.

«Adesso ti lascio andare! Sono le tre, ormai. Ciao! Ci vediamo domani!»

La salutai con la mano, senza parlare. Non mi curai eccessivamente di quel bacio, per quella sera. Per me non voleva dire niente. Gli unici baci che avevo desiderato mi erano negati. Per sempre. Gli altri non avevano significato. La scuola, per me, cominciò la settimana successiva. Già. La scuola. Fu l’unica cosa nella quale mantenni il mio impegno, già a partire dall’autunno successivo alla scomparsa di Elena.

«Coraggio, Dario! Ora avrai un motivo in più per primeggiare in classe! Lo farai anche per lei! Come se fosse ancora con te a studiare! Come se fosse ancora con te!»

Fu l’unico tra i nostri professori a partecipare al funerale. Fu anche l’unico a cercare di darmi un appoggio morale una volta rientrati. Se avessi dovuto giudicare il prof. di matematica solo per il suo comportamento durante i primi giorni della gita a Firenze, avrei sbagliato di grosso. Dimostrò una carica di umanità rara, che non trovai neppure tra i parenti più prossimi. Forse devo anche a lui il sessanta con il quale Elena e io siamo usciti. So che è da folle ciò che sto affermando, ma per me è proprio così. Elena si è diplomata con me. Era lì, la sentivo, anche durante gli esami. Sempre. Forse dovrei finirla, l’università. Forse, prima di fare ciò che ho in testa, dovrei darle anche la possibilità di laurearsi. Sono proprio tanto confuso, ma… non credo che riuscirei a portarla a termine. Ora sono ancor peggio piazzato rispetto al liceo. Ora sono molto più stanco di combattere per qualcosa che non ha più senso. Mi gira la testa. Sarà il caldo. O, forse, il fatto che non mangio da qualche giorno. Non importa. Tanto sono seduto. L’importante è che non svenga, poi, per il resto. Il campanello. Non ci voleva. Speriamo sia qualcuno poco insistente. Di nuovo. Fa niente. Tanto non ho intenzione di aprire. Sembra che si siano stufati. Meglio così. Sono quasi quattro giorni che sono seduto a questa scrivania. Non mi resta più molto tempo. Devo sbrigarmi.

«L’ho superata! Ce l’ho fatta!»

La vidi molto più contenta del giorno nel quale aveva preso la patente.

«Sono nell’elenco di coloro che hanno superato la prova di ammissione, Dario! Non è fantastico?»

«Certo. Brava.»

Non prestava mai troppo caso alla mia assoluta mancanza di entusiasmo, in qualunque situazione ci trovassimo.

«Tieniti forte! Sono arrivata settima su più di quattrocento persone! Non è fantastico?»

Era una sua frase tipica, quel «Non è fantastico?»

E dire che la vita non era stata dolce neppure con lei.

«Sai, il motivo principale per il quale mi sono trasferita qui non è l’università. Avrei potuto frequentarla anche dove abitavo prima. Il fatto è che, beh, sono rimasta sola. Ho solamente più i miei nonni. I miei sono morti a seguito di un incidente, quasi un anno fa!»

Guardava il cielo notturno, senza lacrime, negli occhi.

«Hanno voluto che terminassi la scuola dove stavo prima, per evitarmi un ulteriore trauma. Sai, dipendesse da me non mi iscriverei all’università, ma… fu l’ultima cosa che mi disse mia madre prima di morire! Mio padre, invece, restò in coma per una settimana senza mai riprendere conoscenza.»

«Mi… mi dispiace! Non sapevo!»

«Non l’ho detto a nessuno di qui, lo sai? Solo a te! Forse non avrei dovuto romperti le scatole con questa storia, ma… non ce la facevo più a tenermela dentro! Scusami!»

«No! Non ti preoccupare.»

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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