Da quando sono in grado di intendere e di volere – ammesso e non concesso che lo sia! – la mia testa è piena zeppa di dubbi. Dubbi su come procedere in ambito lavorativo, dubbi su come comportarmi nella vita privata. Dubbi persino sulla mia identità, intesa come identità sociale. Giusto per raccontare un paio di aneddoti su di me e su come ragioni la mia testa, posso spiegare come il mio percorso di studi e un’esperienza sportiva mi abbiano consentito di essere in grado di decidere – bene o male, questo solo il tempo potrà dirlo – anche in presenza di quantitativi di dubbi che Amleto levati proprio!
Aver studiato una materia scientifica – tra l’altro per passione, non per moda o, più semplicemente, perché mio padre già lavorasse in quel campo – mi ha dato una forma mentis particolare. Il tentativo di ricondurre sempre a un algoritmo i percorsi di lavoro e di vita, con domande alle quali si può rispondere solo con “sì” o “no” mi ha consentito di concentrarmi sull’essenza dei problemi, ripulendoli da ciò che in statistica si chiama “rumore”: informazioni non utili – e talvolta fuorvianti – per il raggiungimento dell’obiettivo. Pur con una deriva di tipo irrazionale sempre presente e spesso influenzante, questo modo di intendere le questioni mi ha sempre consentito di trovare una strada – non pretendo sia la migliore – per giungere all’agognato cartello di fine corsa. Insomma, i miei studi mi hanno consentito di cercare soluzioni ai problemi e non necessariamente colpevoli.
L’altra situazione che mi ha aiutato tanto nel mio percorso è stata l’esperienza come arbitro di calcio. Scenario: campetto di periferia o di paese, con recinzioni che spesso stanno in piedi per miracolo e col pubblico che, volendo, potrebbe entrare sul terreno di gioco – che ha la regolarità di un campo minato in Siria – senza sforzo. Un uomo solo contro tutti (o tutte… ho anche arbitrato il calcio femminile, in effetti!), con l’ambizione di non commettere errori e la speranza di tornare a casa vivo. Decidere correttamente, in pochissimo tempo – quando va bene, cinque secondi – avendo cura di evitare atteggiamenti arroganti da “lei non sa chi sono io”: questa, ogni sporca domenica (o sabato, o mercoledì, o… qualsiasi giorno nel quale abbia arbitrato una gara) la mission. Sono stato particolarmente bravo – o sfacciatamente fortunato – da non dover mai uscire dagli spogliatoi accompagnato dalle Forze dell’Ordine (e chi seguiva Mai dire gol potrebbe immaginare la scena degli sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo chiusi nello spogliatoio con la folla inferocita fuori), ma con la certezza di aver commesso errori – talvolta anche grossi – che purtroppo non posso più correggere in alcun modo. E qui, un secondo insegnamento: imparare a chiedere scusa anche quando si è convinti di aver operato in coscienza e in buona fede, perché non sempre la propria visione è anche la visione dell’altra persona.
E niente… ogni giorno mi trovo a dover prendere decisioni importanti, che quasi sempre riguardano la vita – non fraintendete: non questioni di vita o di morte, ma sicuramente in grado di modificare anche solo l’agire della controparte – di tante persone, nonostante la testa sia piena di dubbi, come se mi trovassi in un fiume amazzonico circondato da piraña affamati. E ogni giorno mi ritrovo a togliere il rumore per vedere un po’ più chiaro l’obiettivo e m’immagino ancora con il fischietto in bocca, pronto a decretare un rigore o un fuorigioco, perché prendere decisioni non è un atto di coraggio, ma non prenderne è sinonimo di ignavia e codardia. Sempre consapevole del fatto che la perfezione non è di questo mondo e che, soprattuto, scusarsi dopo aver commesso un errore non significa essere debole. Anzi, aiuta a fare molto meglio i conti con i propri dubbi!