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L’aveva fatto di nuovo. Non era la prima volta che capitava. Mi si era rivolta nello stesso modo usato da Elena. Era un colpo, un tuffo al cuore, ogni volta che la sentivo. Aveva abbassato il capo, mentre giocherellava con il vol-au-vent che aveva nel piatto.
«Cosa c’è?»
«No, niente. Un pensiero che mi è saltato in testa dal nulla, ma… non ti preoccupare! È una scemata!»
Era molto meno sicura del solito, mentre mi diceva quelle poche frasi. Una persona normale le avrebbe chiesto se ci fosse stata qualche cosa che non andava. Io, no. Riprese il suo abituale modo di fare in pochi istanti.
«Come ti sembra, qui?»
«Bel posto. Anche il mangiare non è male.»
«Io non ci ero mai venuta. Me lo hanno consigliato i miei nonni. Sai, ogni tanto si concedono una cena al ristorante e… questo è il loro preferito!»
«Hanno buon gusto.»
Non avevo quella che si dice una conversazione brillante.
«Hai visto quei due, a quel tavolo?»
«Sì. E allora?»
«Non si sono rivolti la parola da quando siamo entrati…»
In effetti, la donna e l’uomo che sedevano al tavolo di fianco al nostro non avevano fatto altro che mangiare e guardarsi intorno, quasi come se fossero capitati lì per caso.
«Ecco cosa mi fa paura!»
«Che cosa? Quelli lì?»
«Ma no! L’incomunicabilità! Sembra addirittura che quei due non si conoscano! Non si sono guardati in faccia nemmeno una volta! Mi vengono i brividi a pensare che possa esistere gente che non senta la necessità di parlare, di comunicare, anche solo a gesti, con un sorriso, con un’occhiata! Non riuscirei a vivere in un mondo privo di comunicazione!»
Mi fissò.
«Vedi, tu sei un tipo taciturno, ma riesci sempre a comunicarmi qualcosa.»
«In che senso, scusa?»
La sua osservazione mi aveva stupito. Non me la sarei mai aspettata.
«Nel senso che ogni tuo gesto è in grado di farmi capire qualche cosa di te!»
«Spiegati meglio.»
«Beh, ecco, anche quando abbassi lo sguardo, o quando alzi gli occhi al cielo, o ti giri dall’altra parte mi vuoi dire qualcosa. Quei due, invece, sembrano eseguire dei gesti meccanici, privi di significato!»
«E cosa ti comunicherei con i miei silenzi e i miei gesti?»
«Questo, se permetti, è un mio piccolo segreto! So che, tra amici, i segreti non dovrebbero esistere, ma questa è una eccezione!»
«Contenta tu.»
Le sue frasi mi avevano veramente colpito. Ero, in realtà, molto più curioso rispetto a quello che avevo dimostrato. Chissà cosa aveva inteso, o, forse, frainteso. Se veramente avesse capito quello che pensavo del suo modo di fare, perché avrebbe dovuto continuare a frequentarmi? O, meglio, a cercarmi? Continuai la cena con quelle domande nella testa.
«A cosa pensi?»
«A niente in particolare. Sono solo un po’ stanco.»
Avevo un buon campionario di scuse: da «Sono stanco» a «Ho mal di testa», passando per «Ero soprappensiero»
Avevo molti modi per nascondere i miei reali pensieri. Alla luce di quelle sue riflessioni di poco prima, però, non ero poi così sicuro di riuscire a celarli, a non farglieli intendere. Mi spaventava, Mara. Veramente. La sua lunga chioma nera, spesso, le copriva il viso.
«Dovrei decidere a tagliarli, ‘sti capelli. Cosa ne pensi, Dario?»
«Per me, puoi fare quello che vuoi.»
«Dammi un consiglio, un parere!»
«Devi esserne convinta tu. Non ricrescono come dal giorno alla notte.»
«Già! Ci penserò! E tu? Perché non li tagli? Staresti molto meglio con i capelli corti!»
«Non ricominciamo, eh? Ti ho già detto un sacco di volte che i capelli non li taglio!»
Era da quel giorno che li lasciavo crescere. Li avevo sempre portati cortissimi, fino ad allora. Poi. Non me ne importò più niente. Nonostante crescessero pochissimo, erano già arrivati sulle spalle. Li tenevo spesso legati. D’estate, in particolare.
«Se vuoi, tagliati i tuoi, ma i miei li devi lasciare stare, ok?»
«Va bene, va bene! Scherzavo!»
Una volta terminato lo stinco, feci per alzarmi.
«Aspetta un momento! Stiamo un attimo ancora!»
«Se vuoi. Io non ho problemi.»
Arrivò il cameriere con un vassoio. Sopra ad esso, una piccola torta, con una candelina e il numero diciotto scritto con cifre di plastica. Subito di fianco, una busta.
«È lei il signor Dario?»
«Sì.»
«Bene! Allora, questo vassoio è destinato a lei. Prego!»
«Grazie!»
Lo appoggiò davanti a me. Lei non lasciò trasparire niente.
«Anche la busta è per lei!»
«Grazie!»
La aprii. “Con i migliori auguri di Buon Compleanno e con infinite scuse per il mio comportamento, a volte troppo esuberante. Mara”. Conservo quel biglietto ancora oggi, in un cassetto. Mi ritrovai spiazzato. Quella sorpresa, mi spiacque ammetterlo, mi aveva fatto piacere.
«Auguri, Dario!»
La sua voce. Per un attimo mi era sembrata un’altra. Si alzò dalla sua sedia e si avvicinò. Mi baciò su una guancia, poi sull’altra. Dietro la torta, nascosto, un pacchettino.
«Anche quello è per te! Aprilo!»
Una piastrina d’oro. Al centro, in diagonale, il mio nome.
«Spero ti piaccia! Sai, non sapevo proprio cosa regalarti!»
«Ma? Non… non so proprio cosa dire!»
Mi sentii imbarazzato. Quasi in debito.
«Beh, allora, non dire niente! Auguri!»
Mi abbracciò.
«Adesso esprimi un desiderio e spegni la candelina.»
Un desiderio. Avrei voluto averlo, un desiderio. L’unico che avevo, purtroppo, era irrealizzabile, anzi, impossibile. Non che la cosa avesse importanza. I desideri espressi davanti alle candele di compleanno si esaudiscono esattamente come quelli mandati a morire con le stelle cadenti. Ero già rimasto scottato da queste ultime, non volli rischiare con le prime. Spensi la candela senza pensare a nulla. Mara mi guardò con una espressione molto dolce. Mangiammo la torta lentamente. Io, frastornato, non la ringraziai come avrebbe meritato. Volle anche fare un brindisi con dello spumante.
«Brindiamo alla nostra amicizia e… al fatto che per la seconda volta in vita tua tu abbia messo la giacca!»
Rise di gusto. Ci alzammo da tavola ben dopo le ventidue. Feci per andare a pagare, «Almeno questo», dissi, ma lei non ne volle sapere.
«Io ti ho invitato e io pago il conto! Vai a farti un giretto fuori, va! Aspettami davanti al locale! Arrivo subito!»
Non mi è mai riuscito di farle dire quanto avesse speso per quella cena. Non c’era niente da fare. Quando non voleva dirmi una cosa, non c’era verso. A volte sembrava addirittura più testarda di me. Il primo semestre di corsi volgeva quasi al termine e il suo impegno nel seguire le lezioni e nello studiare a casa era massimo, ma riusciva sempre a trovare il tempo per venirmi a prendere e portarmi da qualche parte. Un pomeriggio di fine gennaio, poi, me la ritrovai di fronte al cancello del cimitero che pregava.
«E tu? Cosa ci fai, qui?»
«Sono passata a chiamarti a casa. Tua madre mi ha detto che eri qui, così, ho deciso di venirti a prendere.»
Non ero mai di buon umore, quando ultimavo le mie visite. Era un continuo rivivere i momenti più brutti della mia vita, un continuo rannuvolarsi nel cielo della mia esistenza. Non riuscivo a starne senza. Dovevo andare tutti i giorni. Il dolore come droga, come abitudine. Non so. Non ho mai capito come mai mi piacesse così tanto farmi del male. Forse l’ho sempre considerato un modo per continuare a ricordare, per fare sì che la mia colpa, quella di non averla salvata, e la mia condanna, la sua risposta non data, non sparissero mai dalla mia mente, restassero sempre indelebili. Mara stava lentamente cambiando la mia vita, anche contro la mia volontà. Era quasi come se non avessi la forza di reagire, di farle mordere il freno, qualche volta.
«Dove vuoi andare?»
«A casa. Devo ancora studiare e domani sarò interrogato.»
«Anche io sono in prossimità del mio primo esame, ma pensavo che una mezz’oretta…»
«No. Meglio di no. Sono veramente molto indietro e penso che dovrò andare avanti tutta la notte.»
«Cosa devi studiare?»
«Latino.»
«Era una delle materie nelle quali me la cavavo meglio, al liceo. Vuoi una mano?»
«No, grazie. Penso di riuscire a farcela anche da solo.»
«Sul serio! Tanto avevo deciso di non studiare, oggi! Vieni da me, che vediamo insieme quello che devi fare!»
«Ma?»
«Niente “ma”! Andiamo!»
Le mie obiezioni non facevano mai molta presa, tranne quando le proponevo al culmine di uno dei miei scatti d’ira. Erano le uniche volte nelle quali rimaneva senza parole. Poverina. Quante gliene ho fatte passare. Me ne accorgo solo ora. Passò tutto il pomeriggio a studiare latino con me.
«Fermati a cena! Dopo, così, in un paio d’ore vedremo tutto quello che manca!»
«No! Vado a casa, per cena!»
«Ma dai! Non fare sempre il testone! Telefono io ai tuoi per avvisarli. Tu finisci la versione.»
Sembrava proprio una professoressa. Ciò che voleva diventare.
«Allora? Com’è andata?»
Il giorno seguente mi aspettò fuori dalla scuola, con la macchina mal parcheggiata di fianco ad un cumulo di neve sporca lasciato lì dallo spartineve.
«Bravo!»
Il suo sorriso si fece ancora più radioso del solito, dopo il mio cenno con le mani ad indicare un nove.
«Vieni! Ti offro l’aperitivo!»
«Veramente, vorrei andare subito a casa.»
«Ma dai! Con il pullman arriveresti tra quaranta minuti. Tra aperitivo e viaggio in macchina ne passeranno meno di venti!»
«Va bene. Se proprio insisti.»
Mi dimostrai stranamente arrendevole. Forse era il mio modo (sbagliato) di ringraziarla per l’aiuto della sera precedente. O, forse, non ero di pessimo umore come mio solito. O, ancora, il mio modo di fare nei suoi confronti stava cominciando a cambiare. Non credo in meglio, ma cominciava a cambiare. Passò anche il mese di gennaio. Cominciavo a fare l’abitudine alle sue visite, ai suoi atteggiamenti, alla sua presenza, direi. Aveva cominciato la sua carriera universitaria con un trenta e lode.
«Anche se non posso ancora farlo segnare sul libretto!», diceva.
«È solo un esonero, un cosiddetto “compitino”. Dovrò darne un altro a giugno e, se il voto mi soddisferà, potrò evitare lo scritto finale e accedere direttamente all’orale.»
Mi spiegava quei dettagli con un modo di fare dolce, come avrebbe fatto una maestra elementare con i suoi bambini, anche con quelli più agitati e dispettosi. Come potevo essere considerato io. Agitato e dispettoso. Menefreghista. Anche egoista.
«Spero per te che tu ci riesca.»
© Roberto Grenna – Riproduzione vietata