Ancora qualche riga da una storia che racconta la storia di V.
Un altro battesimo
Dalla prima volta nella quale ho esercitato potere di vita e di morte per placare la mia fame e la mia sete sono trascorsi ormai più di vent’anni. Era l’estate della maturità. Ero ancora fidanzato con la ragazza della prima volta ed avevo da poco finito gli esami. Nel paese vicino – leggenda metropolitana o realtà, non è dato sapere – viveva un signore sui cinquanta, sul conto del quale si vociferava parecchio. Chi gli dava del gay, chi del pedofilo. Chi raccontava di aver avuto proposte da lui. Avevo sempre ascoltato distrattamente quelle voci, fino a un tardo pomeriggio di agosto. Mi trovavo, non ricordo per quale motivo, a passeggiare in prossimità del cancello di casa sua, una bella villa con un giardino maestoso. La strada, intorno, deserta.
Forse, fu questo particolare a farlo avvicinare al cancello, con lo scopo di parlarmi. «Ciao, carino… dove stai andando?»
Non so cosa scattò nella mia testa… dissi, tra me e me, che era giunto il momento di capire se quelle voci fossero solo tali, oppure avessero un fondo di verità. «Nulla di che. Passeggiavo dopo aver riaccompagnato a casa la morosa.»
«Eh, la morosa! La morosa non può darti quello che potrei darti io!»
Disse quella frase con voce maschia, ma suadente. Ero, ormai, entrato in quel gioco, al punto da rispondere a quell’offerta con una domanda: «Perché? Tu cosa avresti, da offrire?»
Si guardò rapidamente intorno, vide che in strada non c’era nessuno e che dalle poche case sparse intorno non si evidenziava alcuno sguardo indiscreto. Abbassò con gesto rapido i pantaloncini che aveva – li vestiva senza underwear – e mi fece vedere ciò che aveva tra le gambe, ricoprendo quasi subito quel che aveva messo in mostra.
Gli feci un cenno col capo, tirandolo indietro e usando il mento per indicargli di aprire il cancello. Entrai e richiuse, evitando di fare rumore. Mi accompagnò in casa, facendomi passare da sotto la tettoia, che nascondeva l’ingresso a tutti coloro che avessero voluto curiosare. Mi fece entrare e tentò subito di baciarmi. Mi scansai e fermai il suo viso con la mia mano.
«Ma cosa fai? Non mi vuoi? Allora cosa cazzo sei entrato a fare, eh?», cominciò a dire, con un tono di voce che andava acutizzandosi mano a mano che parlava. In barba alla voglia che avevo di mettergli le mani addosso, gli feci cenno di fare silenzio, appoggiando l’indice sul naso, chiedendogli poi, con tono gentile, dove fosse la cucina.
«Allora sei uno di quelli a cui piacciono le cose fantasiose… vieni, vieni, che ci divertiamo…», disse con voce melodiosa, quasi mielosa.
Mi scortò in cucina, dove un’enorme isola con tavolo, lavandino e fuochi occupava una buona metà della superficie calpestabile. Diedi una rapida occhiata all’ambiente, mentre il mio ospite insinuava una mano all’altezza del mio inguine e l’altra, dentro i pantaloni, sul mio sedere. A portata di mano, sul tavolo, un ceppo di coltelli. Fu un attimo. Presi il più grosso e, senza pensare più di tanto, glielo piantai in mezzo al petto, spingendolo via. Cadde a terra senza un lamento, gli occhi sbarrati, un fiotto di sangue che sgorgava dal petto, nudo. Un richiamo. Qualcosa a cui non avrei saputo resistere.
Mi ci volle un attimo per riorganizzare le idee. Dovevo stare attento a non sporcarmi – e ancora adesso mi domando come non mi sia imbrattato di sangue accoltellandolo – e, magari, cancellare le tracce del mio passaggio in quella casa, sperando, soprattutto, che nessuno mi avesse visto mentre entravo.
Presi un foglio di carte assorbente e, con molta attenzione, aprii gli scomparti della cucina, alla ricerca di un contenitore qualsiasi, con tappo o coperchio, da utilizzare per raccogliere un po’ di quel ben di Dio. Trovai un vasetto, tipo quelli da miele, abbastanza grande. Mi chinai in prossimità di quel corpo ormai inanimato e riempii il barattolo per più di tre quarti. Tolsi il coltello dal petto, mi avvicinai al lavandino e lo lavai accuratamente. Stessa cosa feci anche col barattolo, dopo averlo attentamente richiuso.
Uscii, protetto dalla tettoia e dalle piante rampicanti che già avevano nascosto il mio ingresso in quella casa, recandomi nella parte posteriore del cortile, ancora più al riparo da sguardi indiscreti. In mano, il mio vasetto, che guardavo con un certo qual languorino. Sgattaiolai da una porticina che avevo trovato chiusa dall’interno con uno di quei meccanismi a contrappeso – quasi impossibile aprirla da fuori, dove mancava la maniglia – ed andai a recuperare la moto. Misi il prezioso vasetto nel bauletto posteriore, montai, accesi e partii, destinazione campagna aperta. Più precisamente, il capanno degli attrezzi, ancora inutilizzato, di quella volta.
Bevvi. Bevvi come se non avessi bevuto mai. Era denso. Quasi nauseabondo, sotto certi aspetti. Ma era quello che volevo. Quel che mi avrebbe fatto sentire meglio. Rimasi seduto a terra, le spalle appoggiate alla parete del capanno, per un tempo che mi parve indefinibile, quasi ubriaco. Forse l’adrenalina dell’omicidio, forse il sangue appena bevuto. La testa mi girava e sudavo freddo. Non so. So solo che lì consumai, tra un conato di vomito e l’altro, l’atto conclusivo di un’altra mia prima volta.
Trascorsi i giorni seguenti in maniera assolutamente serena, anche quando una vicina, insospettita dal cattivo odore che proveniva dalla casa della mia vittima, aveva fatto in modo che i Carabinieri ritrovassero il corpo. Le indagini si diressero immediatamente verso il mondo dell’omosessualità e della prostituzione maschile, tralasciando altre piste. Tracce presenti sul luogo del delitto: nessuna. Ero stato proprio bravo.
Fu, per certi versi, l’inizio della mia seconda vita, quella che ancora oggi mi consente di essere ciò che sono, in barba alle convenzioni di una società che non concepisce il diverso e che lo demonizza.
© Roberto Grenna – Riproduzione vietata