Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!
«Elena!»
Mi ero sbagliato. Quella che, a causa della vista annebbiata, mi era sembrata colei che non poteva essere era, in realtà, un’infermiera dell’ospedale. Il dottore, infatti, preoccupato per il fatto che gli antipiretici non avessero avuto alcun effetto, aveva disposto il mio ricovero presso il nosocomio della città vicina. Ero in uno stato che definire confusionale è dire poco. La prima immagine nitida che ebbi davanti agli occhi fu la sua.
«Ciao!»
Al suo fianco, i miei genitori.
«Allora? Come va?»
«Potrebbe andare decisamente meglio!»
Ero sempre e comunque scontroso. Mara mi fissava con occhi apprensivi, quasi tristi. Aveva passato tutta la giornata tra la camera dove ero stato sistemato e la sala d’aspetto. Il suo esonero di Geometria, saltato.
«Mi hai fatto preoccupare tantissimo! Sai, mi sento colpevole per questo tuo malanno! Ti ho portato questo.»
Sfilò da una borsa di nylon un pacchetto con un grosso fiocco rosso.
«Per me? »
Non recepii subito.
«Sì! Una piccola cosa che ti piace per farti pesare un po’ di meno il tuo ricovero e… per cominciare a chiederti scusa!»
Spacchettai lentamente.
«Una scatola di cioccolatini.»
«Sì! So che ne vai matto. O, meglio, lo so da quando me l’ha detto tua madre!»
«Ma? Come mai questo?»
«Te l’ho detto: mi sento in colpa per quello che è successo sabato sera. Se ti avessi dato retta, forse non saresti qui, adesso.»
Sorrideva, mordendosi il labbro inferiore. Lo faceva spesso, quando era nervosa.
«Non è stata colpa tua.»
Per la prima volta da quando la conoscevo, dissi qualcosa che la fece sentire meglio. Fui colpito, in un certo senso, dal suo atteggiamento. In quel momento ancora non ero a conoscenza del fatto che non avesse dato l’esame per potermi stare accanto, ma il suo modo di parlarmi, di guardarmi, di sfiorarmi la fronte per capire se fossi ancora febbricitante, mi aveva fatto abbassare per un momento quella barriera che cercavo di tenere costantemente alta.
«Come? Come dici?»
«Sto dicendo che non mi trovo qui per quello che è successo sabato. L’accidente me lo sono preso… che giorno è, oggi?»
«Lunedì. Sono le sei e un quarto di lunedì pomeriggio.»
«Ah, beh. Allora me lo sono preso ieri. Da solo.»
Vidi la tensione allentarsi sul suo viso. Gli occhi, fino a quel momento quasi opachi, ripresero la loro abituale luce.
«Vorresti dire che non mi ritieni responsabile per ciò che è successo?»
«Esattamente.»
«Ma?»
«Nessun “ma”, non ti preoccupare.»
Il cielo, cupo come mai durante quell’inverno, continuava a scaricare neve. Dalle enormi vetrate della mia stanza non si riusciva a vedere a più di cinque metri.
«Non… non so veramente cosa dire!»
«Ah! Volevo anche ringraziarti per i cioccolatini. Non era il caso.»
La mia voce era quella di sempre. O quasi. Fu l’ultima ad andarsene, quella sera, e la prima ad arrivare il mattino dopo.
«Ti ho portato un paio di brioche e un po’ di focaccia ancora calda. So che qui in ospedale non si mangia molto bene.»
Era nuovamente tranquilla. Tornai a casa un paio di giorni dopo, completamente sfebbrato, ma ancora abbastanza debole a causa delle cure a base di antibiotici. La prima notte a casa dopo il ricovero fu piuttosto agitata. La causa dell’agitazione, un sogno. Premonitore. Una figura femminile, sospesa in aria e quasi evanescente, si avvicinava lentamente a me. Tutto intorno, il buio più assoluto. Non un rumore. Non una voce. Nonostante i lineamenti del viso fossero confusi, sapevo di chi si trattasse. Solo due parole, in quel silenzio irreale.
«Attento, Dario! Attento!»
Mi risvegliai di soprassalto, pensando a quel monito, a quel fantasma del mio passato che tornava per mettermi in guardia, a quella paura di ricominciare a vivere che affiorava lentamente, ma in modo sempre più deciso. Paura. Già. Quale altra parola potrebbe meglio descrivere il mio profondo disagio di fronte a quella fonte di inesauribile energia e positività? Mara aveva stravolto completamente le mie abitudini e, in un certo senso, cominciava ad insinuarsi “dentro” me. La parte buia, però, non l’avrebbe mai ammesso, né consentito. Era solo una rompiscatole. Una invadente rompiscatole. A volte mi domando come mai sia più difficile sconfiggere se stessi piuttosto che l’avversario più agguerrito. Forse perché ciascuno di noi può conoscere in anticipo le proprie mosse. La parte buona sa ciò che vuol fare la parte cattiva e viceversa. È questione di autodeterminarsi, di capire quale ego sia più forte, quale meglio rispecchi ciò che veramente c’è dentro di noi. Marciume. Ecco cosa c’è. In me, ma non solo. Non ho il diritto di criticare gli altri. Mi sono chiuso in me stesso, ho seguito i miei istinti più bassi, mi sono scoperto freddo proprio quando un po’ di calore umano avrebbe potuto. Avrebbe potuto cambiare tutto. Ho perso l’ultima occasione, l’ultima corsa verso la vita. Sono rimasto al capolinea, conscio che non riuscirò più a schiodarmi da qui. Meglio così. Non saprei più dove andare. È pazzesco. Sto scrivendo i miei pensieri esattamente come mi passano per la testa. È come se avessi cento voci tutte uguali che mi riempiono i sensi, che mi stordiscono. Ogni tanto si rifà viva anche la parte buona. Dice che non tutto è perduto, che con vera fede potrei ritrovare la serenità e potrei dedicarmi con ritrovato entusiasmo agli altri. No. Non voglio. Non ne sono capace. Meglio. Meglio piantare tutto. Meglio lasciare gli altri ad interrogarsi sul perché. Quello che mi invade è un inverno che non può finire. L’inverno di quell’anno, invece, sebbene piuttosto tardi, cedette il passo alla primavera. Le visite giornaliere di Mara e le uscite di fine settimana erano diventate quasi una consuetudine. Non ero meno scontroso. Forse più accondiscendente. Di contro, lei si dimostrava molto meno esuberante. Quel mio malanno aveva lasciato il segno.
«Sai, quando ho saputo che ti avevano ricoverato mi è quasi preso un colpo! Ho ripensato a tutto il freddo che avevi preso a causa mia e mi sono sentita terribilmente stupida.»
Era fatta così, Mara. Ancora a distanza di un mesetto abbondante ricordava quell’episodio con apprensione. Non riusciva a perdonarsi il fatto che io avessi potuto stare male a causa sua.
«Sono proprio una testona!», ripeteva, colpendosi il centro della fronte con l’indice della mano destra ben teso. Il giorno della prova di teoria per la patente mi accompagnò lei fino all’autoscuola.
«In bocca al lupo! Anche se so che non ne hai bisogno: non sbagli un test da un paio di settimane almeno, no?»
«Mhh. Non è che mi importi molto di passarlo o meno. Intanto ho l’autista!»
Dissi quella frase molto seriamente. Lei, di contro, rise di gusto.
«Già! Hai ragione! Avresti anche potuto fare a meno di iscriverti! Dovremmo rivedere il mio contratto, però! Adesso vai, altrimenti rischi di arrivare tardi. Ci vediamo per la mezza, ok?»
«No, lascia stare. Me ne torno a casa in pullman. Tu vai a studiare, va!»
Richiusi la portiera della macchina, senza però chiudere il finestrino.
«Non ti preoccupare! Oggi faccio vacanza. Alla mezza, allora! Ciao!»
Partì prima che potessi replicare. L’esame di teoria si rivelò una passeggiata. Alle dieci e mezza ero già fuori dall’autoscuola, con due ore da passare in giro. Già. Avevo deciso di aspettarla. I primi tempi non mi sarei fatto nessun tipo di problema e me ne sarei andato a casa. Quel giorno no. Adesso so il perché di quello e di tanti altri comportamenti incoerenti che tenni. Incoerenti rispetto al mio modo di vivere fino ad allora. Incoerenti, forse, rispetto al mio modo di vedere Mara fino ad allora. La parte più nascosta (e più egoista) di me aveva già deciso e stava predisponendo tutto per ciò che accadde qualche tempo dopo.
© Roberto Grenna – Riproduzione vietata