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Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!

«In fondo», pensai, «non l’ho mica cercata io. Se a lei va bene starmi sempre intorno ed essere trattata male, non sarò certo io a dissuaderla. E poi, a ben pensarci, potrei anche divertirmici un po’!»
Un mostro. Ecco cos’ero diventato. Uno di quei mostri, moderni come antichi, che passano sopra i sentimenti altrui, li calpestano e li fanno volgere a proprio favore, li fanno diventare un veicolo per il soddisfacimento dei propri bisogni. Già. Bisogni. Bisogni fisici, che si stavano facendo via via sempre più forti, più prepotenti. Più impellenti, direi. Feci l’alba insieme ai miei pensieri. Mi alzai molto presto, infilai i jeans che avevo la sera precedente, la stessa felpa che era stata testimone di quell’episodio e mi diressi verso il cimitero. Da qualche tempo il grande cancello in ferro battuto che avevo trovato chiuso la notte di Natale rimaneva aperto anche nottetempo. Qualche malintenzionato aveva forzato la serratura, ormai inservibile, ma l’amministrazione comunale, presa da altri problemi “più importanti”, pareva non essersene accorta. È da allora che il camposanto sta degradando sempre più. Strani oggetti ritrovati vicino ad alcune tombe hanno alimentato voci di messe nere e riti satanici. Fortunatamente, però, mai nessuno ha tentato di profanarne alcuna. Ragazzate. Sicuramente scherzi di qualche stupido che non ha nulla di meglio da fare. Camminai respirando l’aria umida del mattino, senza metter mano al pacchetto delle sigarette. Cosa che, comunque, feci in seguito, subito dopo essermi seduto sulla ghiaietta bianca che circondava quel marmo così familiare. Non dissi una parola durante le due ore seguenti. Mi limitai a guardare la sua foto, pensando, come sempre facevo, alla dinamica dell’incidente, se così lo si possa definire, che le era costato la vita. In quel luogo, per fortuna, direi, non pensavo ad altro che ad Elena. Lì, forse, ero un po’ meno mostro, un po’ meno cattivo. Un po’ meno vivo. La trovai che mi aspettava nel vialetto, quando rincasai. Si avvicinò a me con le mani dietro la schiena e l’aria di chi non sa cosa dire.
«Ciao.»
«Ciao.»
«Come… come va?»
«Come sempre.»
«Ah!»
Fece una pausa di qualche secondo.
«Ti è piaciuta la pizza, ieri?»
«Sì, non era male.»
«Sai, stanotte ho avuto qualche problema a dormire. Avevo un gran mal di stomaco e ho pensato che la causa potesse essere qualcosa che abbiamo mangiato.»
«Io non ho avuto nessun tipo di problema, invece!»
Che bugiardo!
«Beh, nonostante il mal di stomaco, vorrei andare a fare colazione. Verresti con me?»
«Se proprio vuoi.»
«Sì, mi farebbe veramente molto piacere!»
«Allora aspetta un attimo. Faccio un salto in casa e arrivo.»
Tornai dopo nemmeno un minuto. La trovai con la macchina già accesa, pronta a partire. Cercò di parlare del più e del meno, tenendosi sempre piuttosto distante da me, quasi avesse temuto il contatto fisico. Era decisamente contratta. Io, invece, cercai di mantenere il mio solito atteggiamento. Il mio solito, odioso, atteggiamento. Consumammo una colazione veloce. Aveva gli occhi molto stanchi. Si vedeva chiaramente che non aveva chiuso occhio. Povera Mara. Le sue preoccupazioni vennero fuori tutte insieme subito dopo l’uscita dal bar, durante la passeggiata alla quale mi invitò.
«Dario, senti, ho qualcosa da dirti!»
Il suo viso era, se possibile, ancora più tirato che in precedenza.
«Ho paura di aver fatto una stupidaggine!»
«In che senso?»
Non so cosa mi spinse a fare quella inutile domanda. Sapevo benissimo a cosa lei si stesse riferendo. Forse volevo solo farla soffrire un po’ di più, metterla a disagio ancora di più rispetto a quanto già fosse.
«Beh, vedi… ieri sera, non so cosa mi sia preso, cosa mi abbia spinto a fare quello che ho fatto! Non so, era come se non fossi più io!»
«E allora?»
«Beh, ecco, ci ho pensato tutta la notte. Non ho avuto male allo stomaco per quello che ho mangiato, ma per quello che ho fatto. Ho paura di aver rovinato tutto!»
«Tutto cosa, scusa?»
Mi stavo quasi divertendo a trascinare il discorso per le lunghe.
«Tutto quello che ho cercato di costruire in questi mesi. Ti sei mai domandato per quale motivo ti sia stata sempre così appiccicata in questo periodo? O perché abbia sempre cercato di fare di tutto, non riuscendovi, lo ammetto, per fare in modo che tu potessi essere più sereno?»
Aveva un tono di voce che non saprei descrivere.
«Sinceramente? No!»
«Beh, allora te lo dico io. Il fatto è che, insomma, mi sono innamorata di te!»
L’aveva detto.
«Ecco! Adesso ho rovinato tutto ancora di più! Lo sapevo che sarebbe andata a finire male! Lo sapevo!»
«Stai calma.»
«Ma come faccio a stare calma? Da quando sono morti i miei non ho più passato un periodo come questi ultimi mesi! Non so nemmeno io come spiegarlo! Dal giorno nel quale ti ho conosciuto mi è sembrato quasi, non fraintendere quello che sto per dirti, quasi di rinascere. Quel tuo aspetto così burbero e quel tuo modo di fare scontroso mi hanno colpito proprio qui!»
Con la mano destra indicò il cuore.
«Non so, quel giorno sull’autobus ho sentito come una scarica elettrica quando ci siamo scambiati quelle poche parole, mi sei sembrato così… così indifeso! Scontroso perché indifeso! Conoscendoti, poi, l’attrazione che provavo si è trasformata in qualche cosa di più, finché… finché non ce l’ho più fatta e ho ceduto ad una tentazione che altre volte ero riuscita a tenere a bada.»
Non la fermai durante quel suo monologo. Si andò a sedere su una delle panchine poste ai due lati del vialetto. La seguii.
«Adesso sai tutto. Stamattina, quando sono uscita di casa, non avevo assolutamente l’intenzione di raccontarti tutto questo. Volevo solo tentare di far tornare tutto com’era prima. Evidentemente non era destino!»
Interruppe per qualche secondo il suo sfogo, per poi riprendere con una domanda.
«E adesso?»
Ormai avevo deciso la linea da seguire. Sapevo esattamente cosa avrei dovuto dire in quel momento e… cosa avrei dovuto fare in seguito.
«Proviamoci.»
«Come, scusa?»
Mi guardò fisso negli occhi.
«Se vuoi, possiamo provarci.»
«Intendi dire che? Cioè, tu mi stai dicendo che quello che è successo ieri non è stato un errore?»
«Ti sto dicendo che possiamo provare.»
Il suo abbraccio mi tolse quasi il fiato.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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