Ecco qualche altra pagina del romanzo “Il fiume”, che è acquistabile qui. Buona lettura!
Un mondo straordinariamente sobrio per una ragazza così giovane. Nessun poster, due soli peluche, uno sul comò e uno sul comodino alla sinistra del letto. In un angolo, poi, una scrivania che era sfuggita al mio primo sguardo. Si vedeva chiaramente che non faceva parte dell’arredamento originario di quella stanza, così chiara in mezzo a mobili decisamente scuri. Sopra ad essa, ordinatissimi, i libri e i quaderni sui quali Mara passava le sue giornate.
«Vieni qui, vicino a me!»
Mi approssimai.
«Allora? Da quando sei entrato non hai ancora detto una parola. Non ti piace la mia sistemazione?»
«No, non è questo. Stavo solo pensando che non sembra la stanza di una ragazza di diciannove anni.»
«Venti! Mi permetto di ricordarti che abbiamo appena festeggiato il mio ventesimo compleanno! Comunque, che c’è di strano?»
Era riuscita a far sembrare la mia domanda quasi fuori luogo, a fare in modo che la serietà di quell’ambiente fosse quanto di più normale ci si potesse aspettare.
«Beh, non c’è niente di…»
«Di frivolo o ‘giovanile’, intendi?»
«Mettiamola così!»
«Un motivo c’è. Questa era la stanza nella quale avrebbero dovuto dormire i miei genitori durante le visite ai miei nonni.»
Già! Anche i suoi nonni non erano del paese. Si erano trasferiti poco prima della tragedia, stanchi della città e della sua frenesia.
«Sai, subito dopo il trasloco dei miei nonni, mio padre aveva cominciato a cercare una casetta da queste parti. Avremmo dovuto trasferirci qui anche noi, non appena avessi ultimato le superiori. Avresti dovuto sopportarmi comunque!»
Cercò di celare con un sorriso forzato la tristezza che l’aveva assalita. Mi si avvicinò, abbracciandomi e appoggiando la guancia destra sul mio petto. Strinse il suo abbraccio come raramente aveva fatto fino a quel giorno.
«Adesso ho solo più i miei nonni. E te! Prego tutte le sere perché non vi succeda nulla. Siete voi la mia famiglia.»
Questa frase mi è rimbombata in testa centinaia di volte, nelle ultime settimane. Se solo l’avessi ricordata quella sera, non mi sarei abbandonato alle affermazioni infantili ed egoistiche che ora mi bruciano dentro, che condizionano un domani al quale non riesco a pensare, che non ho il coraggio, soprattutto la forza, di programmare. Sono un vinto. O, meglio, un perdente. Non posso neppure più far leva sulla dignità. Non sono più in grado di guardare chi mi circonda tenendo la testa alta. Fin quando puoi far leva sugli altri, imputando loro anche i tuoi errori, riesci a commettere ogni tipo di nefandezza. Riesci, in poche parole, a fare e a dire tutto ciò che ti passa per la testa. È come quando si è ubriachi. Si perde il controllo, non ci si rende conto di ciò che si fa. Se capita di essere preso a botte, poi, nemmeno si prova dolore. Si diventa una sorta di essere onnipotente, la cui onnipotenza deriva dall’incoscienza. Nel senso più puro del termine. L’alcool annulla la coscienza. Esattamente come la morte di Elena fece con la mia, con i sentimenti buoni che avevo provato fino a pochi istanti prima. È stato come ritrovarsi su una zattera, da solo, in mezzo all’uragano. All’improvviso, nel mare in tempesta, la quiete di un’isola dalla vegetazione rigogliosa, dall’aspetto pacificatore. Mara, l’isola che ho abbandonato per la deriva definitiva, per il viaggio verso le Colonne d’Ercole della mia vita. Il problema è che dall’altra parte non c’è l’Oceano. Wilde, una volta, disse che “L’uomo può sopportare le disgrazie, esse sono accidentali e vengono dal di fuori: ma soffrire per le proprie colpe, ecco l’aculeo della vita.”
Nessuna frase, negli ultimi tempi, mi è sembrata così significativa come questa. Gli aforismi, in fondo, sono solamente cose che tutti sanno e che uno solo è in grado di descrivere in maniera incisiva. Come le canzoni. Ogni persona rivede in una frase, in un ritornello o in una strofa ciò che sta vivendo, pensando o mettendo in discussione. Quante volte ho legato un ricordo ad un motivo musicale o, più seriamente parlando, ad una poesia o ad un romanzo. L’unico libro che mi viene in mente ora, quantomeno per la sua conclusione, è L’airone, di Bassani. Mi sto deprimendo ancora più del solito. Ho ben chiaro, in me, il ricordo di quella notte, del modo nel quale facemmo l’alba. Ricordo anche le lacrime di dolore che rigarono il suo viso. E il sangue. Non era dello stesso colore di quello che rese più salda l’amicizia tra Elena e me. No. Questo era molto più scuro, a suggellare, almeno dal suo punto di vista, un rapporto che avrebbe dovuto essere molto più profondo. Si addormentò lì, vicino a me. Io, dal canto mio, fumai l’immancabile sigaretta, come se si fosse trattato di una scena tratta da un lungometraggio. Non lo fece perché ubriaca. No. In barba alle sue convinzioni religiose, alla sua vera fede, aveva deciso di dimostrarmi qualcosa. O, forse, di darmi qualcosa, di farmi capire che, in qualunque circostanza, anche a costo di andare contro a ciò che credeva, lei sarebbe stata con me. Aveva sacrificato per me qualcosa della quale, seppi dopo, andava estremamente fiera. Senza rimpianti. Senza rimorsi.
© Roberto Grenna – Riproduzione vietata