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È un periodo strano. Molto strano. Si alternano in me tante sensazioni e tanti sentimenti. Come mia abitudine, cerco di razionalizzare il tutto e di trarre conclusioni – tipo bilancio. Tracciare il bilancio è una cosa che faccio abitualmente il trentuno di agosto, per motivi lavorativi, e il cinque gennaio di ogni anno, per motivi di genetliaco. In altri periodi mi capita molto raramente di farlo, anche se per abitudine cerco sempre un approccio analitico, che prevede comunque una parziale tiratura di somme. Negli ultimi mesi – forse complice il lockdown, forse qualche altra situazione – mi sono abituato invece a farlo quasi quotidianamente, con evidenza dei “più” e dei “meno” che si sono susseguiti nell’arco della giornata, magari sommati algebricamente a quanto totalizzato la sera precedente.

Beh… devo dire che le ultime settimane sono state foriere di tante “conclusioni” che nel corso degli anni – magari per paura, magari per pigrizia, magari per cecità – mai avevo messo in evidenza. La prima: non sono in grado di essere egoista e di “fare cose” solo pro domo mia. È inutile… c’è sempre una vocina che mi dice che non va bene fregarsene degli altri e che, alla fine, ce l’ha sempre vinta. Non che mi capiti troppo spesso di pensare in maniera egocentrica e/o egoistica, ma ogni tanto capita.

La seconda: non sono più in grado di spiegarmi con le persone che mi circondano, di illustrare perché determinate ipotesi, determinate azioni da compiere siano “quelle giuste” – e non in maniera soggettiva. C’è qualche persona a me vicina che, quando argomento le scelte, le decisioni, i consigli e le indicazioni mi dice che mi “giustifico”. Non ho bisogno di giustificarmi, per il semplice fatto che non ho mai fatto del male a nessuno volontariamente, ma se anche fosse, non mi sono mai tirato indietro quando si è trattato di scusarsi e di cercare di rimediare. Senza dare motivazioni: quando si sbaglia e si fa del male non ci si deve giustificare ma, se si può, si deve rimediare. Non mi giustifico, ma spiego. Non mi stancherò mai di spiegare. È ciò per cui sono nato e ora che lavoro come dirigente scolastico solo io so quanto mi manca andare in classe a raccontare quel poco che so a chi abbia voglia di ascoltare.

La terza: la voglia di ascoltare. Offro sempre l’orecchio a chi abbia da dire, da chiedere, da proporre. Ascolto sempre tutte e tutti, spesso faccio mie le altrui convinzioni o indicazioni, ma poi – vuoi per il lavoro che svolgo, vuoi per una naturale propensione al masochismo – le scelte le faccio io, per quello che riguarda la mia persona. Per ciò che concerne gli altri, ascolto per essere in grado di ragionare sul da farsi, per poter dare un consiglio meglio ponderato, per poter trovare – se serve – la soluzione ai problemi. Ma… già, c’è un “ma”… quando parlo io, argomento, spiego, espongo… non trovo in molta parte degli altri la stessa capacità – meglio, volontà – di ascoltare, ponderare, valutare. Sento, spesso, semplicemente degli slogan di ciò che l’altra persona pensa, il più delle volte ripetuti senza nemmeno aver colto la semantica delle mie parole.

Ho quasi cinquant’anni. Ho da sempre voglia di essere utile agli altri, senza chiedere niente in cambio. Ho un figlio e una figlia, in rigoroso ordine d’età, che vorrei prendessero questa – ritengo l’unica – caratteristica positiva che ho, ma… perché? Perché aiutarli a diventare spugne che assorbono tutto ciò che li circonda, salvo poi trovarsi di fronte a pareti impermeabili quando restituiscono un po’ delle loro esperienze di vita?

L’unica risposta che mi viene da dare è: “Perché è l’unico modo di vivere che conosco”…

One Reply to “Riflessioni sulla quotidianità di una testa complessa…”

  1. Se ha come me quasi cinquant’anni (in verità io li ho già compiuti) non cambierà più e speriamo che i suoi figli prendano da lei…. C’è tanto bisogno di persone così… Grazie

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