Oggi sono semplicemente frastornato. La situazione a scuola sta procedendo in maniera abbastanza corretta – sarei un pazzo o un bugiardo ad affermare che non ci siano problemi – ma il contorno a ciò che stiamo facendo mi lascia estremamente perplesso. Nei mesi del lockdown ero qui, nel mio ufficio, da solo, a tentare di gestire una situazione alla quale nessuno di noi era preparato. “Da solo” per modo di dire, perché tramite Skype, WhatsApp, Spaggiari – e chi più ne ha, ne metta – ero sempre in contatto con le mie collaboratrici e i miei collaboratori, con i quali si è cercato di tirare fuori il meglio da tutti gli attori coinvolti in un anno scolastico terminato con quattro mesi di didattica a distanza.
Ho sentito, innegabilmente, un senso di comunità, di appartenenza, di unità d’intenti che ha coinvolto tutte le persone che ruotano intorno a questo paesone che è la scuola che dirigo: Docenti, Studentesse e Studenti, Genitori, Personale ATA… un’unione che, malgrado le tante differenze tra i singoli, ha fatto la forza e, se mi si permette, la differenza. La differenza tra il vivacchiare in difesa per portare a casa lo zero a zero, sparacchiando il pallone in tribuna, e continuare a costruire gioco, magari sbagliando qualche passaggio e qualche occasione sotto porta, ma uscendo sudati e stremati per aver dato tutto. La differenza tra traghettare senza sussulti le Discenti e i Discenti al termine di un anno scolastico praticamente certi della promozione e insistere quotidianamente sull’importanza dello studio e della cultura al di là della promozione e della valutazione. La differenza tra subire la situazione e trasformarla in un modo per crescere.
Poi… poi… poi è arrivato il nuovo anno scolastico. La scuola è tornata a essere sinonimo di normalità, di quotidianità, di abitudini consolidate. È arrivato il 14 settembre, con tutte le incognite di un lavoro che sulla carta dava tutte le garanzie possibili, ma che doveva essere verificato all’atto pratico. Con tutte le preoccupazioni dovute al fatto che i protocolli di sicurezza sono utili solo se tutte le persone coinvolte li rispettano. Con la consapevolezza che tutto sarebbe stato più complicato. Con la spinta, però, di quel senso di comunità acquisito nei mesi precedenti.
E peccato… già, perché di fronte a una situazione di emergenza peggiore – a mio avviso – di quella vissuta durante il lockdown, sono riemersi da più parti i particolarismi che da sempre hanno reso complesso il lavoro di amalgama e l’unità della scuola. È nuovamente il tempo degli egoismi, del proprio orticello coltivato e curato a discapito di tutto il resto. Del lamento per quello che non risponde alle proprie aspettative. Della pretesa che tutto sia come prima. Della volontà di vedere solo quello che – inevitabilmente c’è e stiamo lavorando perché non ci sia più – non funziona.
Dalla critica al lavoro svolto a quella sulle persone il passo è breve: sono stato preso in giro per la mascherina che indosso, per come parlo, probabilmente anche per i capelli lunghi. Per le spille sulla giacca indice di una fede laica che mi accompagna da quando ero bambino. Per il modo nel quale uso le mani quando parlo. Sempre meglio di quando mi hanno bucato le gomme (tre volte in un anno e mezzo, per un totale di dieci pneumatici), ma comunque fastidioso. Fastidioso e – mi si permetta – infantile. Amen. Me ne farò una ragione.
Fortuna vuole che esista, oltre a una minoranza rumorosa ed egoista, una maggioranza silenziosa e realista che sta supportando – e, ne sono consapevole, sopportando – tutto quanto siamo obbligati a mettere in campo per poter far ripartire la scuola. Una maggioranza che si palesa quando meno me l’aspetto – fuori da un supermercato, per strada mentre vado a casa, in panetteria – e che, senza tanti giri di parole, mi incita a continuare nel lavoro che tutti insieme stiamo svolgendo e appoggia incondizionatamente, sicuramente assorbendo i disagi che immancabilmente ci sono, le scelte e il lavoro svolto. A queste persone rivolgo il mio ringraziamento. Non tanto perché, di fatto, dimostrino di condividere le mie idee, ma perché nella calma di un confronto tra individui che si rispettano reciprocamente sanno porre l’accento su ciò che non va suggerendo anche possibili soluzioni. Perché ascoltano le motivazioni e comprendono quando proprio non si può agire diversamente. Perché comunque si rendono disponibili a dare una mano a far sì che le cose migliorino o, quanto meno, non peggiorino. Perché nonostante tutto si sentono ancora parte di una comunità che, insieme, deve raggiungere il proprio, importantissimo, scopo: preparare le Ragazze e i Ragazzi di oggi a essere le Adulte e gli Adulti di domani, coloro nelle mani dei quali sarà affidato questo Paese che ancora, purtroppo, vive delle meschine affermazioni dei singoli sul bene comune. A essere individui che pongano al primo posto il rispetto per l’altro e non le esigenze dell’io.