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Ecco il quinto capitolo del Libro I della tetralogia Quell’Oscuro Regno del Male tra Tanaro e Bormida. Buona lettura!

LIBRO I

UOVA E CAFFÈ

Si era accomiatato da qualche minuto dai due amici, quando lo stomaco cominciò a reclamare.

“Sarà meglio che mangi qualcosa, altrimenti non riuscirò a lavorare, stanotte!”, ragionò, mentre apriva la porta del frigorifero. Vide il pacchetto che Emma gli aveva portato poche ore prima.

“Ma sì! Due uova sbattute mi terranno su!”

Aprì l’involucro di carta di giornale – anche i suoi nonni, quando avevano le galline, erano soliti vendere le uova fasciandole in quel modo – e ne prese un paio. Separò i tuorli dagli albumi, facendo cadere i secondi in un padellino dove già sfrigolava un po’ d’olio. Poi prese lo zucchero che sua madre aveva infilato nel pacco dei viveri e ne versò sei cucchiai colmi nella tazza dove aveva raccolto i due “rùs”, come si diceva in dialetto. Cominciò a mescolare uova e zucchero sempre più velocemente, mentre teneva d’occhio la padella, ottenendo in pochi secondi una crema d’un color giallo chiaro, dalla quale si sprigionavano piccole bolle – segno che l’amalgama era quella giusta.

Fagocitò letteralmente quel pasto così frugale, quasi scottandosi il palato con gli albumi fritti, ricordandosi solo dopo aver sparecchiato tavola e aver versato l’acqua nella caldaia della caffettiera di non avere polvere di caffè.

«Le otto e mezza. Se mi sbrigo, riesco a recuperarlo al supermercato!», disse ad alta voce, dirigendosi velocemente verso la porta dell’alloggio.

Prese il marsupio, controllò che Venceslao non stesse facendo danni – se ne stava tranquillo sul divano a pancia all’aria – e scese velocemente le scale.

«Oh, Giulio! Siamo in partenza?»

La voce di Catalina fece sì che alzasse lo sguardo. Rallentò fino quasi a fermarsi.

«No, no! Sto solo andando a comprare il caffè. Per fortuna la vedo! Volevo ringraziarla per le uova! Ne ho già mangiate due stasera: sono veramente eccezionali! Come posso ricambiare?»

L’anziana gli sorrise, sollevandosi in posizione eretta dopo aver innaffiato la pianta presente sul pianerottolo: «Ma lasa sté… lascia stare! Sono contenta che ti siano piaciute! Cosa stai andando a comprare? Il caffè, hai detto?»

«Sì!»

«Aspetta un attimo, che ne ho io da darti! Me ne portano sempre dei pacchetti che io non uso e così…»

Sparì in casa per qualche secondo, mentre il ragazzo la attendeva, esitante.

«Ecco: scegli quello che ti piace di più.»

«Ma non è il caso…»

«Stà tranquìl! Io non me ne faccio niente! Prendi quello che vuoi.», gli disse mostrando alcuni pacchetti differenti, «Anzi, prendili tutti e tre!»

Giulio, abbastanza imbarazzato, tentò di sdebitarsi: «Mi dica almeno quanto le devo!»

«Parla nén! Non dirlo nemmeno per scherzo! Mi fa piacere che qualcuno lo beva, questo caffè!»

Il ragazzo le dedicò un sorriso sincero, mentre riceveva quell’ulteriore dono: «A questo punto, non serve nemmeno più che esca. Grazie ancora!»

Fece per risalire la rampa di scale discesa non più di qualche secondo prima, quando l’anziana donna chiosò: «Emma mi ha detto di scusarla per oggi. Si sarebbe fermata ancora, ma doveva star dietro a questa vecchia masca…»

Girandosi verso la sua interlocutrice – e con il sorriso che si apriva ancora di più, se possibile – si scusò: «Abbia pazienza, ma il tempo è volato. Spero non sia stato un problema, il suo ritardo! E poi… perché si definisce una masca, una strega?»

«Ma sì… t’im vüghi nén? Non mi vedi? Sembro una strega delle favole! Comunque, nessun problema! Abbiamo fatto tutto lo stesso!», rispose, mentre lentamente socchiudeva la porta: «Domani pomeriggio è di nuovo qui da me!»

Giulio si volse per tornare al suo alloggio. Era arrossito.

Mentre la caffettiera da sei tazze cominciava a borbottare sul fornello e Venceslao giocava con una pallina di pezza in corridoio, il ragazzo prese posto alla scrivania, non prima di aver dato un’occhiata fuori dalla finestra.

“Mamma mia, che cielo nero! Non mi ero accorto che si fosse rannuvolato così! E che vento! Sta piegando letteralmente le piante del viale! Si preannuncia un bel temporale!”, pensò, proprio mentre l’aroma di caffè stava spandendosi per casa.

Versò tre cucchiai di zucchero seguiti dal liquido bollente nel termo, lo chiuse e lo scrollò un po’, per poi immergersi nel suo lavoro. Sotto certi aspetti, aveva sempre spaventato anche i suoi genitori: la sua capacità di concentrazione era tale, nel momento del massimo sforzo mentale, da non accorgersi minimamente di quanto gli accadesse intorno.

All’improvviso, però, un enorme boato proveniente da fuori lo scosse, in concomitanza con il buio che avvolse la stanza e con un persistente fischio che gli forava le orecchie.

«Ma cosa accidenti?» si domandò alzando gli occhi.

«È andata via la luce! Ecco perché il gruppo di continuità si è messo a fischiare in questo modo!», disse sottovoce, per poi girarsi verso la finestra: «Madonna come piove! Fammi tirare giù tutte le tapparelle!»

Fece per alzarsi dalla sua poltrona da ufficio – non da gamer, ma da professionista dell’informatica, come amava dire – ma un improvviso capogiro lo colse. Si appoggiò alla scrivania, cercando con lo sguardo di identificare la porta dello studio, verso la quale si diresse barcollando.

«E questo cos’è?», si domandò quasi urlando, uscendo dalla penombra dello studio verso il buio pesto del corridoio.

Due flebili luci, come due fari d’auto lontani, si muovevano verso di lui. Indietreggiò verso la camera da letto, con la testa che girava come dopo un giro sulla calcinculo, appoggiandosi al muro del corridoio per non cadere. Varcandone l’uscio, si girò. Le due luci non c’erano più. Volse lo sguardo verso il punto dove sapeva essere posizionato il letto e, quasi con terrore, rieccole!

Inciampò in qualcosa che probabilmente aveva lasciato lì mentre disfaceva le valigie, cadendo a faccia in giù sul letto. Il buio che era fuori gli entrò in testa e nei cinque sensi. Svenne.

«Catalina! Che cosa ci fa qui?», domandava in sogno alla donna che lentamente si stava avvicinando a lui. Non parlava. Sorrideva solamente

«Catalina? Catalina? Cosa sta succedendo? Dove ha trovato Venceslao?», domandò, notando che il suo gatto era in braccio all’anziana vicina.

«Come mai non mi parla? Che cosa…»

Non poté terminare la frase: avvicinatasi a sufficienza, gli coprì la bocca con la mano destra, mentre Venceslao giocava con una spilla che faceva bella mostra di sé su una spallina del vestito della sua vicina. Si concentrò su quell’oggetto, vedendone però i contorni confusi e non riuscendo a comprenderne la forma.

Catalina tolse la mano dalla sua bocca e, con un gesto molto teatrale, prese un lembo del grande mantello nero che aveva sulle spalle – e che lui non aveva assolutamente notato. Avvolse Giulio con quel tessuto che aveva lo stesso profumo che si può sentire di notte, in un bosco, dopo una forte pioggia.

La luce piano piano scompariva, a seguito dei lenti gesti di Catalina, mentre nel buio, riecco le due luci che l’avevano seguito in casa.

«Aiuto!», gridò, cercando di divincolarsi, ottenendo come risultato solamente un aumento della forza da parte della donna nel trattenerlo.

«Aiuto! Aiu…»

Poi, nitido, il miagolio di un cucciolo. Il calore di una lingua felpata che odora di pesce su una guancia. Le luci fioche che si trasformano in occhi che lo guardano quasi stupiti, l’iride di un verde quasi fosforescente.

Nelle orecchie, quasi rimbombante, un messaggio che pareva arrivare da lontano: «Il buio è il tuo nemico. Noi siamo la tua forza. Il rito sta per compiersi. Tu sei il prescelto. Credi e nulla potrà farti del male!»

La voce si faceva sempre più flebile, fino a scomparire. Fu allora che chiuse gli occhi, quasi ad addormentarsi e fu allora che si svegliò, sollecitato dalle leccate e dalle fusa del suo cucciolo.

© Roberto Grenna – Riproduzione vietata

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